La trasmissione psichica tra generazioni

I lutti non elaborati, le lacrime non versate, i segreti di famiglia, le identificazioni incoscienti e le lealtà familiari invisibili si trasferiscono ai figli e ai loro discendenti. Ciò che non viene espresso a parole, viene espresso con la sofferenza.” Schützenberger

The merry family. Jan Steen -1668

Tema di grande fascino in ambito psicologico è lo studio della famiglia, delle relazioni fra i suoi membri e degli effetti che queste relazioni sortiscono sullo psichismo di ciascun individuo. Veniamo al mondo all’interno di trame psicologiche di significato costituite attraverso le generazioni familiari. Il pensiero sul nuovo nato esiste al di là e ben prima del parto: esso si fonda, contemporaneamente, sui legami tra generazioni e sui legami tra contemporanei. Ciò implica che la vita psichica si trasmette, passa da individuo ad individuo e viaggia di generazione in generazione. Per dirla con le parole di Kaës (1993) si tratta di una “produzione intersoggettiva della psiche”, ovvero di un processo di circolazione e trasmissione di materia psichica che annoda soggettività e intersoggettività e che costituisce la base della formazione della vita psichica individuale e del suo funzionamento inconscio. Allo stesso modo, l’appartenenza del soggetto a diversi insiemi (gruppi, istituzioni, masse, famiglia) determina una pluralità di spazi psichici da cui l’individuo attinge per la formazione del proprio psichismo.

Se già Freud (1921) evidenziava la dimensione sociale e relazionale dello psichismo umano (1921), più recentemente, Napolitani estende la concezione della mente umana e del suo funzionamento ponendo in essa fondamenta intersoggettive. Il meccanismo psicologico dell’identificazione diventa centrale nella formazione della identità individuale: la relazionalità del nucleo familiare e successivamente della più ampia rete sociale viene incorporata nel bambino formando il suo mondo interno. Freud stesso, secondo Napolitani, «getta le premesse per il superamento della dicotomia tra individuale e sociale attraverso la formalizzazione di quel processo di identificazione per il quale la cultura, nei suoi significati intenzionali e prescrittivi, si insedia stabilmente nel cosiddetto “mondo interno” dell’individuo […]» (Napolitani, 1987, p.124).
Da queste premesse, l’autore teorizza il concetto di gruppalità interna, intesa come «l’esito della internalizzazione, attraverso processi identificatori, dell’insieme di relazioni delle quali l’individuo, sin dalla nascita, entra a far parte come l’elemento personale di una circolarità di significazioni e di intenzionamenti» (Napolitani & Maggiolini, 1989). Gli oggetti internalizzati e le relazioni fra loro costituiscono la cosiddetta identità identificatoria – ovvero l’immagine di sè costruita attraverso gli insegnamenti tramandati dai soggetti del – nucleo antropologico (o matrice culturale) di cui il bambino fa parte (idem) – che nel corso dello sviluppo andrà a confliggere e, dunque, ad essere riconcepita a partire dal nucleo più autentico e creativo di sè (autós): proprio la possibilità di trasgredire i modelli culturali tramandati e innestati nella propria identità identificatoria consente all’individuo di aprirsi al mondo attraverso la parte più autentica di sè, pena la sofferenza psichica che finisce per configurarsi in psicopatologia.

La ricerca e gli studi sul tema della trasmissione familiare della vita psichica hanno gettato luce sulle modalità benigne o patologiche attraverso cui si realizzano tali processi. Kaës ha notato che, così come il narcisismo del bambino si poggia sui desideri irrealizzati dei genitori, allo stesso modo la trasmissione transgenerazionale della vita psichica di fonda sul concetto di negativo, ovvero su tutto ciò che negli accadimenti familiari generazionali è rimasto incistato, bloccato, difettoso. Il “negativo” è ciò che nella storia familiare non può essere narrato, raccontato e trasformato psichicamente in senso maturativo. Esso è ciò che, avendo un significato bruto o bizzarro, non può essere trasfuso da una generazione ad un’altra oppure viene trasportato in maniera difettosa, determinando sofferenza e patologia mentale nell’individuo e nella famiglia. Nella trasmissione transgenerazionale del negativo i vissuti trasmessi sono impensabili, non rappresentabili, e indicibili: diventano pertanto segreti, non detti, pseudo-verità. Questi elementi psichici non dicibili sono emotivamente carichi e gravano sulle generazioni familiari determinando sofferenza psichica che i genitori chiedono ai figli di risolvere in un circolo vizioso che non ha fine, almeno fin quando tali contenuti emergono sul piano della coscienza e possono essere elaborati attraverso la creazione di nuovi significati, di spazi psichici generativi in cui è possibile dare senso e risignificare la sofferenza tramandata e di cui si è stati per tanto tempo inconsapevolmente succubi.

Bibliografia

Kaës, R., Faimberg, H., Enriquez, M., Baranes, J.-J. (1993). Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma, Borla.

Freud, S. (1921). Massenpsychologie und Ich-Analyse; trad. It. Psicologia della masse e analisi dell’Io, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1986, vol. 9.

Napolitani, D., Maggiolini, A. (1989). Gruppalità interna. Rivista italiana di gruppoanalisi, vol. IV, n. 1-2.

Napolitani, D. (1987). Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino, 1987.

La richiesta d’aiuto

“Nel profondo del suo cuore, aspettava che accadesse qualcosa. Come i marinai naufraghi, rivolgeva uno sguardo disperato alla solitudine della sua vita, nella speranza di scorgere una vela bianca tra le lontane nebbie all’orizzonte…”
G. Flobert, Madame Bovary – 1856

Edward Hopper, Automat – 1927.

Secondo il fenomenologo ed esistenzialista svizzero Ludwich Binswanger il disagio mentale coincide con una particolare disposizione soggettiva nei confronti della realtà, un particolare modo di essere-nel-mondo (Carotenuto, 1992). E l’essere-nel-mondo implica costituzionalmente l’interazione con l’altro. Come chiarisce Galimberti: “ogni esistenza è originariamente una co-esistenza (Mit-dasein) che dischiude uno spazio psichico o vissuto che è poi il mondo che si ha in comune (Mit-welt). […] Il punto di partenza è l’umana presenza (Dasein) nel suo originario essere nel mondo (In-der-Welt-sein), senza distinzione tra “sano di mente” e “alienato”, perché sia l’uno che l’altro appartengono allo stesso “mondo”” (Galimberti, 1999).

Se tutte le esperienze emotive e affettive sono da collocarsi all’interno di un’ottica intersoggettiva, l’incontro con lo psicoterapeuta è da considerarsi come una nuova ed unica esperienza intersoggettiva in cui si interroga il proprio essere-nel-mondo attraverso la condivisione del disagio e della sofferenza. Collocare la richiesta d’aiuto all’interno di questo quadro esistenzialista, significa dunque coglierne uno dei principali aspetti relazionali: condividere vissuti, esperienze e sentimenti all’interno di una specifica relazione duale.

La richiesta d’aiuto e la stessa modalità attraverso cui essa viene espressa (ad es. in maniera diretta o mediata da familiari o conoscenti) racconta qualcosa del nostro modo unico e autentico di essere nel mondo: giungiamo nella stanza di cura, infatti, con un insieme complesso e articolato di immagini, pensieri, fantasie e aspettative che descrivono noi stessi, la nostra sofferenza e la domanda di cura ad essa associata. Sarà compito del terapeuta accogliere e decodificare i messaggi espliciti e impliciti che vengono veicolati già a a partire dal primo contatto.

Nell’accoglienza di qualunque domanda di cura, sia che essa sia formulata in assetto privato o in un servizio pubblico, il terapeuta analizzerà la richiesta attraverso “l’esplorazione delle simbolizzazioni affettive agite” (Carli e Paniccia, 2004), ovvero attraverso l’esplorazione dei significati attribuiti alla relazione in atto e dei ruoli che la definiscono. L’analisi della relazione fra i principali attori in gioco (paziente, terapeuta, inviante, familiari e così via) raccoglie elementi importanti per la successiva formulazione di una psicodiagnosi, che secondo la psicoanalista McWilliams (2012) è una diagnosi relazionale o, meglio, un’analisi della relazione fra terapeuta e paziente all’interno del setting terapeutico. In quest’ottica, tutti gli “avvenimenti relazionali” che si avviano a partire dal primo contatto andranno a delineare la domanda di cura e consentiranno di mettere in luce principali modalità di funzionamento psicologico e relazionale del paziente.

Bibliografia

Carli R., Paniccia R.M., Analisi della domanda. Teoria e tecnica dell’intervento in psicologia clinica. Il Mulino, 2004, pp. 9-10.

Carotenuto, A. (1992). Dizionario Bompiani degli Psicologi Contemporanei, Bompiani, Milano.

Galimberti, U. (1999). Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano, pag. 41, 57-58.

McWilliams, N. (2012). La diagnosi psicoanalitica. Seconda Edizione a cura di V. Caretti e A. Schimmenti, Astrolabio Editore, Roma, 2012.

Nuovi nodi nella malattia mentale: la soggettività intorpidita

“Vi sono persone che possono condurre una vita soddisfacente, fare del lavoro che può anche essere di valore eccezionale, ed essere tuttavia schizoidi o schizofrenici. Possono essere malate in senso psichiatrico per via di un precario senso di realtà. Per equilibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri che sono così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente da essere malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l’approccio creativo alla realtà” (Winnicott, 1971).

The invention of life, 1928. R. Magritte

Questo articolo offre uno spunto di approfondimento su una nuova forma di sofferenza individuale, quella che Bollas (2018) chiama intorpidimento della soggettività, o, ancora, parziale distruzione del fattore soggettivo che implica un vuoto interiore, un senso di sè smarrito, una scarsa inclinazione a vivere l’esperienza soggettiva, una identità che non poggia su un approfondito lavoro mentale. L’autore definisce queste personalità normotiche, alludendo ad una persona “anormalmente normale. Troppo stabile, sicuro, tranquillo ed estroverso, […] totalmente disinteressato alla vita soggettiva.” (Bollas, 2018, p 114). Questo dis-conoscimento di sè, infatti, è perfettamente inserito all’interno di una vita sociale, lavorativa, economica spesso impeccabile, infiocchettata alla perfezione all’interno di un mondo fatto di oggetti acquisiti che finiscono per definire la soggettività stessa. Per usare le parole di Bollas: “il normotico si rifugia negli oggetti concreti. E’ posseduto dalla pulsione a definire la soddisfazione mediante l’acquisizione di oggetti, e quindi misura il valore delle altre persone in termini di quantità di oggetti acquisiti. Ma questo tipo di appropriazione non nasconde alcuna passione […]. Il normotico accumula oggetti concreti senza avere alcun desiderio; essi semplicemente appaiono nella sua vita come se fossero il risultato logico e il simbolo della sua personalità” (Bollas, 2018, p. 116). L’attitudine acquisita, già durante l’infanzia, è quella di deviare lo sguardo dal mondo psichico per concentrarsi su tutto ciò che è esteriore e concreto, relegando ad un rumore di fondo tutto ciò che ha a che fare con la vita interiore. Ciò che conta è che il Sè venga considerato come normale, poggiando la valutazione della propria soggettività su parametri esterni, rigorosamente all’interno della norma. E’ importante essere una brava persona, ben inserita all’interno delle vicissitudini sociali, qualcuno che si desidera avere come amico: “il modo in cui il sè viene trattato come un oggetto è simile all’interesse mostrato verso la qualità di un prodotto dall’ufficio preposto ai controlli di qualità di un’azienda” (Bollas, 2018, p. 130).

Bollas ritiene che questo tipo di personalità sembra essere stato trascurato dalla psicoanalisi in quanto questo disturbo viaggia sull’asse della normalità. Uno sguardo attento, invece, coglie la profonda anormalità nell’essere eccessivamente normali. Diversamente dalla rottura psicotica, in cui si perde di vista l’orientamento di realtà, distaccandosene, la malattia normotica determina una rottura radicale dalla soggettività, una totale assenza dell’elemento soggettivo e un mancato riconoscimento del movimento interiore che lo caratterizza: “come la malattia psicotica è caratterizzata dal rivolgersi esclusivamente al mondo della fantasia e dell’allucinazione, così la malattia normotica può essere definita come il rivolgersi esclusivamente agli oggetti concreti e al comportamento convenzionale” (Bollas, 2018, p. 123), costringendo l’individuo dentro una spirale di superficialità, dove si esorcizza il complesso mondo delle esperienze soggettive.

Il rischio che comporta l’imponente costruzione delle difese normotiche è il crollo che ne deriva nel momento in cui si entra a contatto con la profondità del complesso mondo psichico. La perdita del lavoro, il lutto, il tumulto della fase di sviluppo adolescenziale, sono solo alcuni esempi di eventi di vita che, per essere elaborati, richiedono il contatto con la propria vita interiore, con il complesso mondo delle emozioni, con la necessità di nuotare dentro la complessità del vissuto soggettivo che si relaziona con il naturale corso delle cose. Non è improbabile, che dinanzi alla necessità di vivere esperienze soggettive crescenti, queste personalità finiscano per rivolgersi alle droghe o tentino il suicidio per anestetizzare le emozioni o per trovare un’alternativa al contatto con se stessi.

Per concludere, la cura della soggettività può passare attraverso la psicoterapia che attinge dalla psicoanalisi, intesa come scienza della soggettività. Da un punto di vista fenomenologico, la psicoanalisi colloca il punto di partenza nella “soggettività dell’individuo, e questo per ragioni strettamente filosofiche. (…) Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che coglie se stessa (Sartre, 1958, trad. it. p. 61). In altre parole, è la nostra soggettività (pensieri, fantasie, desideri, pulsioni, sogni, incubi, ricordi, affetti, sentimenti e così via) che ci consente di esistere, di essere nel mondo attraverso noi stessi e il nostro mondo interiore. La psicoanalisi pone una lente di ingrandimento su questo universo soggettivo, affinché possa essere ri-conosciuto, esplorato, condiviso nella relazione terapeutica e indirizzato verso il benessere e la salute mentale.

Bibliografia.

Bollas, (2018). L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Sartre J. P. [1943]. L’essere e il nulla, Milano, Mondadori, 1958.

Winnicot, D.W. (1971). Il gioco: formulazione teorica. Trad. it. in Gioco e realtà. Armando, Roma 1974, pp. 29-100.

Il viaggio dell’eroe e la trasformazione di sè

La psicoterapia può essere paragonata al viaggio di un eroe che, dopo diverse sfide, raggiunge finalmente il suo obiettivo

‘… alla fine sono arrivata a credere in una ricerca che io chiamo:
«la fisica dell’anima».
Una forza della natura governata da leggi reali quanto la legge di gravità.
La regola di questo principio funziona più o meno così:
se sei disposto a lasciarti dietro tutto ciò che è familiare e confortevole,
e che può essere qualunque cosa,
dalla tua casa a vecchi rancori
e partire per un viaggio alla ricerca della verità,
sia esterna che interna,
se sei veramente intenzionata a considerare tutto quello che ti capita in questo viaggio come un indizio,
se accetti tutti quelli che incontri strada facendo come insegnanti,
e se sei preparata soprattutto ad affrontare e a perdonare alcune realtà di te stessa veramente scomode,
allora la verità non ti sarà preclusa’.

Tratto dal film “Mangia prega e ama” di Ryan Murphy, 2010.

Il viandante sul mare di nebbia – Friedrich, 1818

Nelle società antiche il mito e la mitogenesi erano strumenti cognitivi utili a spiegare i fenomeni della realtà naturale e i processi dello sviluppo umano. L’individuo avrebbe iniziato a mitizzare a partire dall’esigenza di stabilire connessioni logiche fra elementi ed eventi del mondo, fornendone, per analogia, spiegazioni e interpretazioni (Demetrio, 1998) e soddisfacendo la naturale esigenza dell’essere umano di autocomprendersi e di autodescriversi. La mitologia implica […] trasformazioni e trasfigurazioni; viaggi nei regni dell’oltretomba, metamorfosi, irruzioni improvvise del divino nell’umano. E’ racconto di una storia “vera” per il suo alto valore di esemplarità e simbolicità, è storia originaria che diviene strumento di conoscenza, anche se non razionale, delle energie nascoste della realtà e degli imprevedibili margini di vita che, assieme al razionale, regolano misteriosamente le forze del mondo» (Iori, 1991, p.22).

Il mito del viaggio dell’eroe è un esempio universale di rappresentazione metaforica di un percorso di sviluppo finalizzato alla piena realizzazione di sé: «consideriamo […] il problema di un individuo che sta crescendo – afferma il noto mitologo Campbell – un siux delle pianure nordamericane nel XVIII secolo, un congolese delle antiche giungle africane o un cittadino contemporaneo di questo ambiente selvaggio, meccanicamente costruito, nel quale noi, popolo moderno, ci troviamo oggi. Tutti noi seguiamo un percorso molto simile in termini di sviluppo psicologico dalla culla alla tomba (Campbell, 2004, p. 23-24).

Fasi di passaggio e di crescita (cambiamenti lavorativi, trasferimenti, la scelta di un percorso di studi), così come eventi dolorosi (lutti, malattie, fallimenti, separazioni) ci pongono dinanzi alla necessità di adattarci a nuove conformazioni di vita, a nuove abitudini, a nuovi riferimenti e nuovi modi di spiegare la realtà che ci circonda. Questi cambiamenti ci rendono protagonisti di innumerevoli sfide, esattamente come nella mitologia gli eroi attraversano lunghi viaggi per conquistare un tesoro dopo il superamento di una serie di prove. «Il viaggio come prova è una esperienza trasformativa in quanto separa l’individuo dal suo contesto abituale, e sottoponendolo a prove e fatiche […], l’identità del viaggiatore viene ridotta ai suoi elementi essenziali, consentendogli di scoprire quali essi siano» (Demetrio, 1998, p. 133).

Il viaggiatore viene dunque assimilato ad un eroe come immagine dinamica di profonda trasformazione interiore. Metaforicamente, ciascuno di noi può essere considerato un eroe chiamato a superare innumerevoli prove durante il corso della propria vita. Già a partire dalla più tenera età, siamo infatti sottoposti ad eventi di vita che possono richiedere molte energie per essere affrontati. La psicoterapia consente di esplorare e accedere al nostro bagaglio di risorse interiori, di imparare conoscerci e a ri-conoscerci nelle diverse situazioni di vita e di stabilire un migliore rapporto con se stessi.

Bibliografia

Campbell, J. (2004). Percorsi di felicità, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Demetrio, D. (1998). L’educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini. Roma, Carocci Editore.

Iori, V. (1991). Il mito: evento educativo originario, in AA.VV. Pedagogia al passato prossimo, Firenze, La Nuova Italia, p. 22.

La costruzione di sè attraverso la crisi

La sofferenza mentale si manifesta spesso attraverso una crisi che può essere “letta” come una tentativo di trasformazione e costruzione di sè

– Secondo te in questo bozzolo che cosa c’è? – Non lo so, è una farfalla? – No. Qualcosa di più bello. È un bozzolo di falena. Un’ironia… tutti guardano le farfalle ma sono le falene a filare la seta. Sono più forti, più veloci. – È bellissimo, ma… – Vedi questo forellino? Questa falena presto emergerà. Ora è dentro che lotta, che si scava la via attraverso la corteccia del bozzolo. Adesso la potrei aiutare, con il coltello. Potrei allargare il foro e la falena sarebbe libera, ma troppo debole per poter sopravvivere. In natura si lotta per diventare forti.
Tratto dalla serie TV «Lost» di J.J. Abrams, D. Lindelof e J. Lieber, 2004-2010.


Fiori, insetti e rettili – Otto Marseus van Schrieck, 1673

Il termine crisi deriva dal verbo greco krino che significa scelta/decisione[1]. Canova (2013) ricorda che nella tragedia la crisi faceva riferimento ad un momento di svolta lungo la trama, segnandone il cambiamento; ancora, nella medicina ippocratica, la crisi fa riferimento ad un cambiamento, in positivo (guarigione) o in negativo (decesso), che avviene nel corso di un processo patologico.  Parad e Parad definiscono la crisi come uno “stravolgimento di una condizione stazionaria, un momento di svolta che conduce ad un miglioramento o ad un peggioramento, una rottura (o breakdown) nel funzionamento abituale di una persona o di una famiglia” (Parad & Parad, 1990, pp. 3-4). Racamier e Taccani, infine, individuano nella crisi un “processo specifico e globale di cambiamento consecutivo ad una rottura di un equilibrio anteriore e con un risultato più o meno aleatorio” (Racamier & Taccani, 2010, p. 13). In generale, si tratta dunque di un evento processuale che implica un inizio, uno svolgimento e un termine, e che segna un passaggio da un assetto organizzativo ad un altro. Da un punto di vista psicoanalitico, evidentemente, il passaggio è segnato da una pre-esistente organizzazione difensiva a nuovi meccanismi. In tutti i casi, la crisi può essere definita come il momento culminante di un processo che segnala e dunque attiva un tentativo di comunicazione dell’emergenza di un cambiamento nel funzionamento di un sistema (interno ed esterno al soggetto).

Nell’ambito della psicologia moderna, uno dei primi autori che ha connesso il concetto di crisi al processo di sviluppo del sè è Erik Erikson (2008), che individua nell’espressione “Identità dell’Ego” un fenomeno psico-sociale radicato nei processi intrapsichici dell’individuo e che è influenzato, al contempo, dal contesto socio-culturale di riferimento. In “Gioventù e crisi d’identità” (2008, p.109), l’autore ricorre al “principio epigenetico” per spiegare lo sviluppo dell’identità individuale. Secondo questo principio, qualunque organismo cresce a partire da un piano di base le cui componenti si sviluppano seguendo un percorso evolutivo – segnato da tappe specifiche – che ha come fine ultimo l’integrazione delle parti in un insieme funzionante. E’ così che ogni momento di passaggio da uno stadio all’altro dello sviluppo coinvolge, direttamente o indirettamente, tutti gli attori del contesto sociale. Poiché ciascuna tappa di sviluppo, inoltre, rappresenta un radicale cambiamento di prospettiva, essa implica l’emergenza di un momento di “crisi”, inteso non nella sua accezione estrema di “catastrofe”, bensì come periodo di svolta, di cambiamento, di trasformazione. Normalmente, qualunque passaggio da una condizione conosciuta ad una ancora ignota predispone l’individuo ad una condizione di vulnerabilità. Tale vulnerabilità sarà accompagnata però, come afferma l’autore, da una potenzialità “istintiva” che fornisce alla persona l’energia per esplorare le sue stesse capacità e che sarà rafforzata, in un ambiente sufficientemente sano, dalla sensibilità delle risposte ricevute.

E’ possibile, in psicoterapia, accogliere un momento di crisi inteso come momento o fase di vita in cui emergono delle esigenze di cambiamento che possono essere espresse anche attraverso disturbi o sintomi. La sofferenza del sistema mentale và dunque accolta, decodificata e ri-significata attraverso un processo di trasformazione di sè e delle relazioni con gli altri. Nella stanza di terapia, il professionista della salute mentale lavorerà insieme al paziente per “leggere” la manifestazione del suo dolore, anche attraverso un’analisi delle dinamiche relazionali con il sistema familiare, lavorativo e sociale. Qualunque forma di sofferenza mentale, infatti, può essere ricondotta alla storia personale e relazionale, caratterizzata evidentemente da difficoltà nel processo di individuazione e soggettivazione, e che si traduce in dinamiche interpersonali disfunzionali.


Bibliografia

[1] http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=crisi

Canova, R. (2013). L’esordio psicotico come crisi di un sistema, in L’esordio psicotico. Approcci clinici a confronto, AA.VV. (a cura di) Carnevali, R., Tagliaferri, N., ArpaNet editore, Milano.

Erikson, E. (2008). Identity Youth and Crisis, New York, W.W. Norton & Company, 1968. Tr.it. Gioventù e Crisi d’identità, Roma, Armando Editore, p. 109.

Parad, H.J., Parad, L.G. Crisis Intervention, Book 2: The Practitioner’s Sourcebook for Brief Therapy. Milwaukee, WI, Family Service America, 1990, pp. 3-4. “[…] upset in a steady state, a turning point leading to better or worse, a disruption or breakdown in a person’s or family’s normal or usual pattern of functioning” (traduzione mia).

Racamier, P.-C. ,Taccani S. (2010). La crisi necessaria. Il lavoro incerto. Franco Angeli, Milano, p. 13.