“Nel profondo del suo cuore, aspettava che accadesse qualcosa. Come i marinai naufraghi, rivolgeva uno sguardo disperato alla solitudine della sua vita, nella speranza di scorgere una vela bianca tra le lontane nebbie all’orizzonte…”
G. Flobert, Madame Bovary – 1856
Edward Hopper, Automat – 1927.
Secondo il fenomenologo ed esistenzialista svizzero Ludwich Binswanger il disagio mentale coincide con una particolare disposizione soggettiva nei confronti della realtà, un particolare modo di essere-nel-mondo (Carotenuto, 1992). E l’essere-nel-mondo implica costituzionalmente l’interazione con l’altro. Come chiarisce Galimberti: “ogni esistenza è originariamente una co-esistenza (Mit-dasein) che dischiude uno spazio psichico o vissuto che è poi il mondo che si ha in comune (Mit-welt). […] Il punto di partenza è l’umana presenza (Dasein) nel suo originario essere nel mondo (In-der-Welt-sein), senza distinzione tra “sano di mente” e “alienato”, perché sia l’uno che l’altro appartengono allo stesso “mondo”” (Galimberti, 1999).
Se tutte le esperienze emotive e affettive sono da collocarsi all’interno di un’ottica intersoggettiva, l’incontro con lo psicoterapeuta è da considerarsi come una nuova ed unica esperienza intersoggettiva in cui si interroga il proprio essere-nel-mondo attraverso la condivisione del disagio e della sofferenza. Collocare la richiesta d’aiuto all’interno di questo quadro esistenzialista, significa dunque coglierne uno dei principali aspetti relazionali: condividere vissuti, esperienze e sentimenti all’interno di una specifica relazione duale.
La richiesta d’aiuto e la stessa modalità attraverso cui essa viene espressa (ad es. in maniera diretta o mediata da familiari o conoscenti) racconta qualcosa del nostro modo unico e autentico di essere nel mondo: giungiamo nella stanza di cura, infatti, con un insieme complesso e articolato di immagini, pensieri, fantasie e aspettative che descrivono noi stessi, la nostra sofferenza e la domanda di cura ad essa associata. Sarà compito del terapeuta accogliere e decodificare i messaggi espliciti e impliciti che vengono veicolati già a a partire dal primo contatto.
Nell’accoglienza di qualunque domanda di cura, sia che essa sia formulata in assetto privato o in un servizio pubblico, il terapeuta analizzerà la richiesta attraverso “l’esplorazione delle simbolizzazioni affettive agite” (Carli e Paniccia, 2004), ovvero attraverso l’esplorazione dei significati attribuiti alla relazione in atto e dei ruoli che la definiscono. L’analisi della relazione fra i principali attori in gioco (paziente, terapeuta, inviante, familiari e così via) raccoglie elementi importanti per la successiva formulazione di una psicodiagnosi, che secondo la psicoanalista McWilliams (2012) è una diagnosi relazionale o, meglio, un’analisi della relazione fra terapeuta e paziente all’interno del setting terapeutico. In quest’ottica, tutti gli “avvenimenti relazionali” che si avviano a partire dal primo contatto andranno a delineare la domanda di cura e consentiranno di mettere in luce principali modalità di funzionamento psicologico e relazionale del paziente.
Bibliografia
Carli R., Paniccia R.M., Analisi della domanda. Teoria e tecnica dell’intervento in psicologia clinica. Il Mulino, 2004, pp. 9-10.
Carotenuto, A. (1992). Dizionario Bompiani degli Psicologi Contemporanei, Bompiani, Milano.
Galimberti, U. (1999). Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano, pag. 41, 57-58.
McWilliams, N. (2012). La diagnosi psicoanalitica. Seconda Edizione a cura di V. Caretti e A. Schimmenti, Astrolabio Editore, Roma, 2012.
“Vi sono persone che possono condurre una vita soddisfacente, fare del lavoro che può anche essere di valore eccezionale, ed essere tuttavia schizoidi o schizofrenici. Possono essere malate in senso psichiatrico per via di un precario senso di realtà. Per equilibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri che sono così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente da essere malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l’approccio creativo alla realtà” (Winnicott, 1971).
The invention of life, 1928. R. Magritte
Questo articolo offre uno spunto di approfondimento su una nuova forma di sofferenza individuale, quella che Bollas (2018) chiama intorpidimento della soggettività, o, ancora, parziale distruzione del fattore soggettivo che implica un vuoto interiore, un senso di sè smarrito, una scarsa inclinazione a vivere l’esperienza soggettiva, una identità che non poggia su un approfondito lavoro mentale. L’autore definisce queste personalità normotiche, alludendo ad una persona “anormalmente normale. Troppo stabile, sicuro, tranquillo ed estroverso, […] totalmente disinteressato alla vita soggettiva.” (Bollas, 2018, p 114). Questo dis-conoscimento di sè, infatti, è perfettamente inserito all’interno di una vita sociale, lavorativa, economica spesso impeccabile, infiocchettata alla perfezione all’interno di un mondo fatto di oggetti acquisiti che finiscono per definire la soggettività stessa. Per usare le parole di Bollas: “il normotico si rifugia negli oggetti concreti. E’ posseduto dalla pulsione a definire la soddisfazione mediante l’acquisizione di oggetti, e quindi misura il valore delle altre persone in termini di quantità di oggetti acquisiti. Ma questo tipo di appropriazione non nasconde alcuna passione […]. Il normotico accumula oggetti concreti senza avere alcun desiderio; essi semplicemente appaiono nella sua vita come se fossero il risultato logico e il simbolo della sua personalità” (Bollas, 2018, p. 116). L’attitudine acquisita, già durante l’infanzia, è quella di deviare lo sguardo dal mondo psichico per concentrarsi su tutto ciò che è esteriore e concreto, relegando ad un rumore di fondo tutto ciò che ha a che fare con la vita interiore. Ciò che conta è che il Sè venga considerato come normale, poggiando la valutazione della propria soggettività su parametri esterni, rigorosamente all’interno della norma. E’ importante essere una brava persona, ben inserita all’interno delle vicissitudini sociali, qualcuno che si desidera avere come amico: “il modo in cui il sè viene trattato come un oggetto è simile all’interesse mostrato verso la qualità di un prodotto dall’ufficio preposto ai controlli di qualità di un’azienda” (Bollas, 2018, p. 130).
Bollas ritiene che questo tipo di personalità sembra essere stato trascurato dalla psicoanalisi in quanto questo disturbo viaggia sull’asse della normalità. Uno sguardo attento, invece, coglie la profonda anormalità nell’essere eccessivamente normali. Diversamente dalla rottura psicotica, in cui si perde di vista l’orientamento di realtà, distaccandosene, la malattia normotica determina una rottura radicale dalla soggettività, una totale assenza dell’elemento soggettivo e un mancato riconoscimento del movimento interiore che lo caratterizza: “come la malattia psicotica è caratterizzata dal rivolgersi esclusivamente al mondo della fantasia e dell’allucinazione, così la malattia normotica può essere definita come il rivolgersi esclusivamente agli oggetti concreti e al comportamento convenzionale” (Bollas, 2018, p. 123), costringendo l’individuo dentro una spirale di superficialità, dove si esorcizza il complesso mondo delle esperienze soggettive.
Il rischio che comporta l’imponente costruzione delle difese normotiche è il crollo che ne deriva nel momento in cui si entra a contatto con la profondità del complesso mondo psichico. La perdita del lavoro, il lutto, il tumulto della fase di sviluppo adolescenziale, sono solo alcuni esempi di eventi di vita che, per essere elaborati, richiedono il contatto con la propria vita interiore, con il complesso mondo delle emozioni, con la necessità di nuotare dentro la complessità del vissuto soggettivo che si relaziona con il naturale corso delle cose. Non è improbabile, che dinanzi alla necessità di vivere esperienze soggettive crescenti, queste personalità finiscano per rivolgersi alle droghe o tentino il suicidio per anestetizzare le emozioni o per trovare un’alternativa al contatto con se stessi.
Per concludere, la cura della soggettività può passare attraverso la psicoterapia che attinge dalla psicoanalisi, intesa come scienza della soggettività. Da un punto di vista fenomenologico, la psicoanalisi colloca il punto di partenza nella “soggettività dell’individuo, e questo per ragioni strettamente filosofiche. (…) Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che coglie se stessa (Sartre, 1958, trad. it. p. 61). In altre parole, è la nostra soggettività (pensieri, fantasie, desideri, pulsioni, sogni, incubi, ricordi, affetti, sentimenti e così via) che ci consente di esistere, di essere nel mondo attraverso noi stessi e il nostro mondo interiore. La psicoanalisi pone una lente di ingrandimento su questo universo soggettivo, affinché possa essere ri-conosciuto, esplorato, condiviso nella relazione terapeutica e indirizzato verso il benessere e la salute mentale.
Bibliografia.
Bollas, (2018). L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Sartre J. P. [1943]. L’essere e il nulla, Milano, Mondadori, 1958.
Winnicot, D.W. (1971). Il gioco: formulazione teorica. Trad. it. in Gioco e realtà. Armando, Roma 1974, pp. 29-100.
‘A volte sto così male che passo ore a piangere. Piango piango senza sosta e mi sembra che tutto venga inghiottito in un nero senza fondo. Allora prendo le forbici e mi graffio. Lo faccio a ripetizione, finchè non vedo le ferite e il dolore arriva immenso e liberatorio.’ (Rossi Monti, 2016, p. 275).
Ricordo di un dolore, G. Pellizza – 1889
E’ verso la fine del XIX secolo che la comunità della salute mentale incorre nell’osservazione e tenta di spiegare una forma di sofferenza psichica profondamente caotica, caratterizzata da evidente instabilità dell’umore e dalla tendenza a scivolare verso stati psicotici (distacco dalla realtà), pur rimanendo – in un quadro di funzionamento generale – all’interno dei confini della nevrosi.
Nel 1938, Adolph Stern fornì un primo contributo nel problematizzare la condizione di quei pazienti la cui sofferenza non rientrava nella classica bipartizione nosografica nevrosi/psicosi. Utilizzò pertanto l’espressione borderline (che letteralmente significa linea di confine, limite) per caratterizzare quei pazienti che ‘si distinguevano per la loro apparente sanità, mostrando un buon esame della realtà e un Io sufficientemente integrato, che però poteva andare letteralmente in pezzi quando venivano posti in situazioni non strutturate o che favorivano la regressione’ (Rossi Monti, 2016). Nel 1953, in un saggio intitolato ‘Borderline State’, Robert Knight estende il riferimento del termine borderline da un gruppo di pazienti definibili come non nevrotici ad una categoria diagnostica descrittiva caratterizzata da incapacità nella gestione degli impulsi e da debolezza dell’Io. Negli anni ’50 e ’60, l’interesse per il disturbo borderline raggiunge il suo apice e diversi autori (come Grinker e al., 1968) individuano alcuni fattori comuni alle diverse sottocategorie della sindrome borderline, come ad esempio la rabbia intesa come stato affettivo principale, difficoltà relazionali, fragilità nella integrazione identitaria e stati depressivi. Fra i contributi in ambito psicoanalitico, spiccano le riflessioni di Otto Kernberg (1967) che ha qualificato il disturbo borderline come una precisa organizzazione della personalità, i cui criteri diagnostici derivano da una sua approfondita e sofisticata analisi strutturale (Kernberg, 1975): 1) Manifestazioni non specifiche di debolezza dell’Io, che si concretizzano nell’incapacità di posticipare il soddisfacimento degli impulsi e di modulare l’ansia; 2) Scivolamento verso processi di pensiero primario o psicotico, sopratutto in situazioni poco strutturate o sotto la pressione di intensi affetti; 3) Operazioni difensive specifiche, come la scissione, che producono la tendenza ad alternare comportamenti e atteggiamenti contraddittori, a qualificare le persone che fanno parte della cerchia sociale e familiare del paziente come “tutti buoni” o “tutti cattivi” e la tendenza a generare rappresentazioni di sé contraddittorie che coesistono e che si alternano; 4) Relazioni d’oggetto patologiche interiorizzate, che derivano dalla tendenza a idealizzare e svalutare gli altri (sotto l’effetto della difesa della scissione), disturbando profondamente la relazione (Gabbard, 2014).
Una caratteristica stabile del funzionamento borderline è l’umore depresso, a partire dal quale, spesso, generano intense crisi di rabbia. La sensazione di vivere sull’orlo della catastrofe relazionale (con familiari, partner, datori di lavoro, terapeuti), la sensazione di vuoto interiore, il terrore dell’abbandono, i comportamenti impulsivi, la difficoltà di mantenere una stabile percezione di sè e della propria identità, sono tutti fattori che rinforzano questa condizione umorale cui si fa fronte anche con gesti estremi come l’autolesionismo e comportamenti potenzialmente dannosi, come comportamenti sessuali rischiosi, abuso di sostanze, spese sconsiderate, guida spericolata, abbuffate e così via (APA, 2013).
Gli studi empirici sulla eziologia del disturbo hanno evidenziato la natura multifattoriale di questo complesso fenomeno psichico: mancanza di sintonizzazione con le figure di attaccamento, presenza di una predisposizione costituzionale, esperienze di trascuratezza, traumi precoci e ripetuti nel corso dello sviluppo, abusi sessuali, rappresentano i principali fattori causali che concorrono a configurare la psicopatologia borderline (McWilliams, 2012).
Bibliografia
APA – AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM-5, APA, Washington DC (Trad. it. DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano 2014).
Gabbard, G.O. (2014). Psichiatria psicodinamica.Quinta edizione basata sul DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Grinker, R., Werble, B., Drye, R. (1968). The Borderline Syndrome: A Behavioral Study of Eco Functions. Basic Books, New York.
Kernberg, O. F. (1967). Borderline Personality Organization, Journal of the American Psychoanalitic Association, 15, pp. 641-85.
Kernberg, O. F. (1975). Sindromi marginali e narcisismo patologico. Tr. It. Boringhieri, Torino, 1978.
Knight, R.(1953). Borderline States, The Bullettin of the Menninger Clinic, 17, pp. 1-12.
McWilliams, N. (2012). La diagnosi psicoanalitica. Seconda edizione riveduta e ampliata. Caretti, V., Schimmenti, A. (a cura di). Astrolabio, Roma.
Rossi Monti, M. (2016). Manuale di psichiatria per psicologi. Carocci Editore, Roma.
“The tenets of the therapeutic community provided the foundation for our first attempts at creating a new community”. “I principi della comunità terapeutica hanno fornito le basi per i nostri primi tentativi di creare una nuova comunità”. Dr. Sandra N. Bloom.
“L’impotenza, l’irrealtà e l’intero scarico della responsabilità sono distorsioni caratteristiche assai diffuse nelle organizzazioni terapeutiche (e anche in altre) […], dato che il potenziale terapeutico sta proprio nella condivisione delle responsabilità, in modo tale che l’individuo non si senta solo nell’affrontare l’inaffrontabile, potendo a questo punto introiettare il sentimento di venire rinforzato e accompagnato attraverso le sue paure più angoscianti. Se la persona sente che qualcuno le è rimasto accanto nella comunità esterna, può giungere ad una maggiore fiducia dentro di sè nella possibilità di rimanere in piedi anche di fronte a un cocente senso di responsabilità.” (Hinshelwood, 1989).
Disparates – Goya, 1864
Le comunità terapeutiche, se organizzate secondo principi democratici, adottano modelli di convivenza improntati al richiamo e al rispetto della responsabilità condivisa, della gestione democratica della vita quotidiana e dei momenti di crisi che, fisiologicamente, ci è richiesto di affrontare. Questa forma di psicoterapia non è intesa come «un nuovo setting, da affiancare ai classici setting individuali, di gruppo, o familiari, ma come uno sfondo politico-culturale ed una cornice teorico-metodologica, tanto dei diversi interventi psicoterapeutici (individuali, di gruppo, familiari) messi in atto nei casi di specifiche manifestazioni psicopatologiche, quanto di tutta una serie di altri interventi clinici e sociali, messi in atto da professionisti, operatori ed (ex)utenti esperti, che sostengono l’empowerment delle persone con gravi disagi psicologici nei loro contesti sociali di appartenenza, ed il loro recovery attraverso la partecipazione attiva a tutti quei processi terapeutici che ne sostengono la cura» (Bruschetta et al., 2015, p. 33).
Basata sul lavoro pionieristico di Tom Main (1983) e sulla successiva rielaborazione di vari autori (ad es. Robert Rapaport, Maxwell Jones, Robert D. Hinshelwood), la concezione di comunità terapeutica democratica è stata sviluppata fino a giungere ad una definizione recente e condivisa: la comunità terapeutica è un «ambiente organizzato che sfrutta il valore terapeutico dei processi gruppali e sociali. Essa promuove una vita di gruppo equa e democratica all’interno di un ambiente mutevole, permissivo ma sicuro. Le questioni interpersonali ed emotive sono discusse apertamente e i membri che vi abitano possono costruire relazioni intime. Lo scambio reciproco aiuta i membri della comunità a confrontarsi sui propri problemi e sviluppa la consapevolezza delle azioni interpersonali» (Haigh & Worral, 2002).
Secondo Kennard (1998) il presupposto fondamentale alla base di qualunque ambiente terapeutico è la condivisione del potere fra i membri della comunità. La comunità terapeutica non viene infatti concepita come un dispositivo statico, bensì come un sistema che si focalizza sulle proprie modalità di comunicazione – mai semplici o automatiche – e sempre suscettibile di soccombere agli automatismi amministrativi. Ancora, l’ambiente o comunità terapeutica rappresenta un tentativo di applicare i principi della psichiatria sociale e della teoria dei sistemi al trattamento istituzionale di vari tipi di devianza. Gli studi sull’applicazione dei modelli di comunità democratica all’organizzazione degli ospedali psichiatrici equiparavano infatti i nosocomi a microcosmi della più ampia società, rappresentando di fatto laboratori sperimentali per il cambiamento sociale (Tucker & Maxmen, 1973).
Una delle più sorprendenti caratteristiche di funzionamento degli ambienti terapeutici sta nel fatto che è la stessa comunità (quindi gli individui che la compongono) ad esercitare la maggiore influenza terapeutica su se stessa (Rapoport, 1960). Tutte le comunità terapeutiche si basano su precisi assunti: i pazienti vengono sollecitati ad assumersi la responsabilità di gran parte del proprio trattamento; il funzionamento organizzativo è più democratico che autoritario; i pazienti vengono messi nelle condizioni di aiutarsi a vicenda; il trattamento terapeutico deve essere prevalentemente volontario, se e quando possibile; i metodi psicologici di trattamento sono preferibili ai metodi di controllo fisico (Almond, 1974).
Poiché, inoltre, la permanenza nelle comunità terapeutiche è generalmente lunga (va da alcuni mesi a uno o più anni), essa rappresenta, secondo Jones (1953) un’opportunità di apprendimento sociale derivato dall’esperienza di convivenza all’interno di una rete sociale in cui i conflitti e le crisi – che si verificano in maniera del tutto fisiologica e naturale – vengono analizzati in situazioni di gruppo, utilizzando le competenze psicodinamiche a disposizione. Chiaramente, continua l’autore, una tale forma di apprendimento è complicata e dolorosa perché gli schemi di comportamento precedentemente acquisiti devono essere disappresi nella prospettiva di acquisire nuovi e più adeguati schemi di comportamento. Questa visione della comunità intesa come organizzazione sociale suscettibile di entrare in crisi implica una living-learning situation (una situazione esperienziale di apprendimento sul campo) , che fornisce la spinta verso il cambiamento e l’opportunità di imparare a cambiare (fonte: http://sanctuaryweb.com/TheSanctuaryModel/ORIGINSOFTHESANCTUARYMODEL/SocialPsychiatry/DemocraticTherapeuticCommunity.aspx).
Bibliografia
Almond, R., The Healing Community: Dynamics of the Therapeutic Milieu. 1974, New York: Jason Aronson.
Bruschetta, S., Bellia, V., Barone, R. (2015). Manifesto per una psicoterapia di comunità a sostegno della partecipazione sociale: la psicoterapia individuale e quella di gruppo rispondono ancora ai bisogni di cura della società? Plexus, Rivista del Laboratorio di Gruppoanalisi, n°14-15.
Haigh, R., Worrall, A. (2002). The Principles and Therapeutic Rationale of Therapeutic Communities. https://www.rcpsych.ac.uk/docs/default-source/improving-are/ccqi/quality-networks/ therapeutic-communities-c-of-c/cofc-process-document-2019-2020.pdf?fvrsn=77daf685_4.
Hinshelwood, R. D. (1989). Cosa accade nei gruppi. L’individuo nella comunità. Raffaello Cortina Editori, Milano.
Jones, M., The Therapeutic Community: A New Treatment Method in Psychiatry. 1953, New York: Basic Books.
Kennard, D., Introduction to Therapeutic Communities. 1998, London: Jessica Kingsley.
Tucker, G. and J. Maxmen, The practice of hospital psychiatry: A formulation. American Journal of Psychiatry, 1973, p. 887-891.
Rapoport, R.N., Community as Doctor: New Perspectives on a Therapeutic Community. 1960, London: Tavistock Publications.
La cura della salute mentale implica la possibilità di sviluppare risorse interiori funzionali al miglioramento delle capacità relazionali dentro i contesti sociali di appartenenza
Composizione VIII – Kandinskij, 1923
Ispirato al modello di salute mentale community based, che ritroviamo nei più recenti rapporti dell’OMS (2001, 2005), l’approccio della psicoterapia di comunità prevede la presa in carico clinico-sociale delle sindromi psichiatriche, attivando spazi di convivenza, reti sociali intermedie, processi evolutivi di passaggio tra l’ambiente in cui la sofferenza mentale si manifesta e il contesto più ampio, la comunità sociale di appartenenza (Barone et al., 2010). Gli obiettivi socio-professionali della psicoterapia comunitaria possono essere perseguiti attraverso il modello gruppoanalitico. Quest’ultimo, infatti: 1) fonda la sua epistemologia sull’antropologia; 2) la sua prassi clinica si è sviluppata in setting individuali, gruppali, familiari, istituzionali e comunitari; 3) assume come centrale per l’intervento clinico il potere terapeutico dei pari e l’orientamento alla partecipazione sociale (Bruschetta et al., 2015, pp. 40-41).
Richiamando il pensiero del sociologo Elias (1938), Foulkes (1948) sottolineava infatti l’importanza – in ambito psicoanalitico – di riconoscere l’approccio sociogenetico (storico) allo studio della formazione del Super-Io. Approccio che si integra a quelli filogenetico (come precipitato della preistoria) e psicogenetico (come conseguenza della storia individuale): «la psicologia dell’individuo è paragonabile all’anatomia e patologia microscopica, cioè […] il microcosmo dell’individuo ripete e riflette i cambiamenti macroscopici della società di cui egli costituisce una parte. L’individuo non è soltanto dipendente dalle condizioni materiali, per esempio economiche, climatiche, del suo mondo circostante e della comunità, del gruppo in cui vive, le cui richieste sono trasmesse a lui attraverso i genitori o da figure genitoriali, ma è letteralmente permeato da esse. Egli è parte di una rete sociale, un piccolo punto nodale, per così dire, in questa rete e può solo artificialmente essere considerato isolatamente, come un pesce fuor d’acqua» (Foulkes, 1948, pp. 41-42). La nascita della gruppoanalisi foulksiana attraverso l’esperienza di Northfield risponde ad una domanda di cura – al contempo – storica, comunitaria e istituzionale. I dispositivi gruppali utilizzati, infatti, rappresentavano gli strumenti più adeguati per trattare un’emergenza clinica e sociale all’epoca della seconda guerra mondiale e all’interno dell’istituzione ospedaliera che accoglieva reduci di guerra. Pertanto, secondo Foulkes, il sociale non è solo una dimensione spazio-temporale esterna all’individuo, bensì anche interna all’individuo e fondante la costituzione della sua psiche.
Partendo da queste riflessioni, il vertice teorico della psicoterapia di comunità assume l’individuo come nato e concepito non solo all’interno di un gruppo, ma anche dentro una comunità (familiare, lavorativa, sociale), che diventa a sua volta soggetto curante, oltre che serbatoio di risorse terapeutiche (Bellia, 2010). Pertanto, la Salute Mentale viene concepita come il prodotto della costante riorganizzazione delle appartenenze gruppali di ogni individuo. La cura della salute mentale, di conseguenza, implica la possibilità di sviluppare risorse interiori funzionali al miglioramento delle capacità relazionali dentro i contesti sociali di appartenenza. In definitiva, nella concezione della psicoterapia di comunità i gruppi rappresentano «dispositivi di sostegno psico-socio-economico elaborati dalla pratica clinica analitico-gruppale per intervenire direttamente sul livello territoriale nel quale si articolano alcune fondamentali appartenenze gruppali degli individui. Tali dispositivi consentono infatti alle comunità di individui che condividono uno specifico territorio politicamente definito di partecipare a quei processi sociali di formazione civica, di maturazione affettiva e di sviluppo professionale in grado di sostenere la riorganizzazione continua delle loro gruppalità interne, anche in situazioni di disagio psico-socio-economico o di patologia mentale» (Bruschetta et al., 2014, p. 12).
Bibliografia
Barone, R., Bruschetta, S., Bellia, V. (2010). La comunità che cura, in Barone, R., Bellia, V. Bruschetta, S. Psicoterapia di comunità. Clinica della Partecipazione e politiche di salute mentale, Franco Angeli, Milano.
Barone, R., Bruschetta, S., Giunta, S. (2010), Gruppoanalisi e Comunità Terapeutica. FrancoAngeli, Milano.
Bellia, V. (2010). Foulkes, la comunità, la cura. Gruppoanalisi e psicoterapia di comunità, in Barone, R., Bellia, V. Bruschetta, S. Psicoterapia di comunità. Clinica della Partecipazione e politiche di salute mentale, Franco Angeli, Milano.
Bruschetta, S., Barone, R., Frasca, A. (2014). La valutazione clinica delle reti sociali e la psicoterapia di comunità orientata alla recovery per la grave patologia mentale. Franco Angeli, Milano.
Bruschetta, S., Bellia, V., Barone, R. (2015). Manifesto per una psicoterapia di comunità a sostegno della partecipazione sociale: la psicoterapia individuale e quella di gruppo rispondono ancora ai bisogni di cura della società? Plexus, Rivista del Laboratorio di Gruppoanalisi, n°14-15.
Elias, N. (1938). Uber den prozess der Zivilization. The International Journal of Psychoanalysis, Vol. XIX, 2.
Foulkes, S. H. (1948). Introduction to group-analytic psychotherapy, London, Heinemann; trad. It. Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica, Roma, EUR, 1991.
OMS (2001). Rapporto sulla salute mentale: nuova visione, nuove speranze, Geneve.
OMS (2005). Dichiarazione sulla salute mentale per l’europa. Affrontare le sfide, creare le soluzioni. Helsinki.
Secondo Basaglia la follia è una condizione umana e la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia
L’assenzio (L’Absinthe) – Edgar Degas, 1876
Fra le tante, preziose, riflessioni di Franco Basaglia riporto in questo articolo di approfondimento uno scorcio di contributo offerto dal noto psichiatra in occasione delle Conferenze Brasiliane nel 1979:
“Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.” (Basaglia, Conferenze brasiliane, 1979).
Malgrado diversi passi in avanti siano stati fatti nel campo della salute mentale nel corso dei secoli, rimane tutt’oggi un inquietante alone di pregiudizio e, forse, di mistero ad appannare la comprensione della sofferenza psicologica. Per questo motivo mi sembra utile citare una recente definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ambito del Piano d’azione per la salute mentale 2013-2020: “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità. […] Una buona salute mentale consente agli individui di realizzarsi, di superare le tensioni della vita di tutti i giorni, di lavorare in maniera produttiva e di contribuire alla vita della comunità. Cosa si intende per salute e benessere mentale? È uno stato di benessere emotivo e psicologico cui l’individuo tende costantemente nelle alterne situazioni dell’esistenza e nel quale è in grado di: • realizzare i propri bisogni a partire dalle proprie capacità cognitive ed emozionali; • esercitare la propria funzione nella società e nella vita di comunità costruendo e mantenendo buone relazioni; • far fronte alle esigenze della vita quotidiana, superando le tensioni e gestendo ed esprimendo le proprie emozioni e le proprie capacità di cambiamento per raggiungere una soddisfacente qualità di vita; • operare le proprie scelte ed esprimere la propria creatività e spirito di iniziativa lavorando in maniera produttiva.
Ciascuno di noi, nel corso della propria esistenza, sperimenta una quota di disagio legata ad ansie, preoccupazioni, paure, rabbia, frustrazione e così via. Quando la portata di tali disagi non è più gestibile a causa della mancanza o della fragilità di risorse interne o esterne all’individuo, è possibile che si manifestino problemi di salute mentale. Il Ministero della Salute distingue il disagio mentale dal disturbo mentale e dalla malattia mentale (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_422_allegato.pdf). Se il primo è caratterizzato da una condizione di sofferenza legata a difficoltà di varia natura nella vita affettiva e di relazione senza che si instauri un sintomo specifico, il secondo coincide con quella condizione in cui l’individuo non trova risoluzione alla sofferenza posta dalla condizione di disagio; pertanto, la prolungata e intensa sofferenza può determinare alterazioni del pensiero e/o dei comportamenti che si manifestano attraverso i sintomi. La stabilizzazione e l’incuria del disturbo mentale possono finire per configurare una vera e propria condizione di malattia mentale a lungo termine, che, se non adeguatamente trattata, può deteriorare in disabilità interferendo con la vita sociale e lavorativa e aggravarsi con il rischio di emarginazione sociale.
Oggi, diverse istituzioni pubbliche e private sono nelle condizioni di prendere in carico le diverse forme di sofferenza genericamente elencate sopra. La consultazione psicologica, la psicoterapia o l’accoglienza in strutture ospedaliere e comunitarie sono tutti esempi di strumenti utili ad affrontare le diverse forme di sofferenza mentale. Qualunque approccio alla cura, inoltre, si basa sulla consapevolezza di guardare al problema attraverso una visione complessa e multidimensionale. In altre parole, la clinica della sofferenza mentale non può tralasciare, nella formulazione di diagnosi e progetti terapeutici, le riflessioni sulla cultura che accoglie disagi, sintomi e malattie mentali. Entrare a contatto con professionisti della salute mentale garantisce dunque una corretta informazione sui disagi che si vivono e sul diritto di ricercare o rafforzare gli strumenti e le risorse utili a perseguire il benessere mentale. Tuttavia, il pregiudizio che ancora oggi si accompagna alla sofferenza mentale spinge a vergognarsi della propria condizione di disagio tanto da evitare di chiedere un aiuto professionale e, nei casi più gravi, procura emarginazione e discriminazione ai danni delle persone sofferenti. Bisogna infatti ricordare che “i diritti delle persone con disturbo mentale non sono differenti da quelli di tutti gli altri cittadini, secondo il dettato costituzionale, indipendentemente dalla concreta possibilità di esercitarli a pieno. La particolare vulnerabilità di tali soggetti richiede, infatti, che sia rafforzato, per essi, il riconoscimento di piena cittadinanza, concretamente difeso e promosso sia attraverso il rispetto dei diritti fondamentali che l’adempimento dei doveri (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_422_allegato.pdf).
Conoscere le trasformazioni politiche, sociali e culturali della cura della salute mentale in Italia aiuta ad avvicinarci alla cura della nostra salute mentale
La nave dei folli – Hieronymus Bosch, 1494
E’ con la legge 180 del 1978 (“Legge Basaglia”[1]) che per la prima volta in Italia viene istituito il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) all’interno degli Ospedali Generali, e più precisamente nei reparti di Psichiatria. La nascita delle nuove istituzioni che si occupano dell’assistenza e della cura della malattia mentale và iscritta all’interno di un profondo mutamento culturale che si è realizzato proprio a partire dal ventennio compreso fra gli anni ’60 e ‘70. In un periodo storico caratterizzato da importanti turbolenze governative, l’Italia della Democrazia Cristiana si apre all’opposizione comunista, accogliendo valori di solidarietà e giustizia sociale la cui espressione si è realizzata attraverso numerose riforme come, ad esempio, l’approvazione della legge sul divorzio in occasione del referendum del 1974(Carli & Paniccia, 2011). Il nuovo mandato sociale andava contro il “perbenismo” borghese aderente ad uno standard conformista che escludeva ed emarginava chi mostrava la propria diversità, come i portatori di handicap o i malati mentali.
Prima della legge 180, infatti, il malato mentale, o alienato, era sottoposto a politiche di controllo giuridico e sociale all’interno di luoghi preposti alla sua reclusione. Se nel Medioevo[2] l’interpretazione di carattere religioso guidava la comprensione e la gestione della malattia mentale (quest’ultima era infatti assimilata alla possessione demoniaca o all’essere sottoposti al castigo divino), l’avvento dell’illuminismo nel XVIII secolo apre nuove prospettive e approcci: in netta opposizione al dogmatismo religioso, la corrente illuminista conduce ad una concezione scientifica della sofferenza mentale, per la prima volta identificata come patologia organica. Tuttavia, è solo a partire dal secolo successivo che, con il positivismo, si assiste alla nascita dei “manicomi di cura” che si sostituiscono agli spazi precedentemente utilizzati per accogliere, in maniera indifferenziata, i malati di mente e gli emerginati sociali. In accordo ai principi della cura pineliana[3], l’istituzione dei manicomi consentì, per la prima volta, di attuare osservazioni scientifiche sulla sofferenza mentale e di introdurre un rinnovato interesse per il trattamento di queste patologie.
Salvo rare eccezioni[4], prima
dell’Unificazione, l’Italia non aveva definito una precisa normativa che
regolamentasse l’assistenza ai malati di mente. Dopo svariati decenni di
dibattiti e proposte di legge, nel 1904, attraverso la Legge Giolitti si applicò
un modello psichiatrico di assistenza fondato sulla istituzione manicomiale e
sulla necessità di garantire la sicurezza nella società. La reclusione, che
avveniva con una ordinanza della polizia, era di competenza del Ministero
dell’Interno e non del Ministero della Sanità: pertanto, il ricovero era
disposto in base ad una valutazione della pericolosità sociale ed era
finalizzato ad una netta separazione dei folli dai sani di mente.
Un decennio prima della legge 180 iniziano a comparire i
primi tentativi di cambiamento nell’assistenza della malattia mentale: con la
legge 431 del 1968, infatti, vengono istituite le prime Provvidenze per
l’Assistenza Psichiatrica, come l’istituzione del ricovero volontario senza
internamento giudiziario e l’affermazione di nuove figure professionali quali
psicologi, psicoterapeuti, neurologi e assistenti sociali. All’interno della
più ampia riforma del Sistema Sanitario Nazionale – SSN – (legge 23 Dicembre
1978, n.833), attraverso la legge 180 del 1978, viene interrotto l’internamento
negli istituti manicomiali e vietata la costruzione di nuovi Ospedali
Psichiatrici. Con l’introduzione della Legge Basaglia il ricovero del malato
mentale non è più competenza del Ministero dell’Interno, bensì del Ministero
della Salute. Dal Codice Penale vengono inoltre soppressi i termini “alienato”
e “stabilimento di cura”. Il malato mentale ha dunque la possibilità di
eseguire accertamenti e trattamenti sanitari in regime volontario presso i
reparti di psichiatria degli ospedali generali, dove viene istituito il
Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Quest’ultimo servizio provvede
inoltre al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) nei casi di individui
affetti da alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici
non realizzabili attraverso misure extra-ospedaliere e quando la persona si
rifiuta di accogliere il trattamento. Il TSO (che è sempre preceduto da un
Accertamento Sanitario Obbligatorio – ASO) è disposto dal Sindaco quale
autorità sanitaria della città e gestito dal Giudice Tutelare con funzione di
controllo e garanzia. Pertanto il TSO viene inteso come strumento di difesa e
tutela dei diritti del cittadino e non come strumento di emarginazione. A
partire dal 1992, con il Decreto legislativo n. 502, si avvia un processo di
ulteriore riorganizzazione del SSN ispirato ai principi di aziendalizzazione,
responsabilizzazione e umanizzazione dello stesso. E’ con il Progetto Obiettivo
1998-2000[5] che,
infine, i servizi di salute mentale assumono la configurazione che oggi
conosciamo[6].
Fra i principali problemi riconducibili alla nuova
riforma, quello più rilevante rispetto alla gestione dei servizi sanitari di
salute mentale riguarda le nuove responsabilità “aziendali” di cui sono
investiti i medici, i quali devono occuparsi della domanda di cura dell’utenza
a partire dalla distribuzione efficace delle risorse economiche disponibili e
stanziate dal governo. Ciò implica che se con il regime della legge 180/178 la
spesa sanitaria si adeguava agli obiettivi di cura, con la riorganizzazione del
SSN sono i bisogni di cura dei pazienti che devono adattarsi ad un piano
finanziario che và ottimizzato. Posizioni critiche (Carli, 2012) affermano che
il reale problema non risiede nella mera aziendalizzazione degli ospedali,
quanto più alla necessità di rispondere ad esigenze economiche ambigue e
politicizzate, che hanno condotto a dimenticarsi del paziente e alla
mortificazione delle risorse interne.
La logica antipsichiatrica alla base della legge Basaglia
era ispirata a ideali di denuncia di ogni forma di discriminazione della
“diversità” e mirava all’abolizione di un sistema di controllo secondo il quale
il malato mentale doveva adeguarsi alle regole dell’ospedale psichiatrico.
Tuttavia, l’applicazione della legge fu di difficile realizzazione per svariati
motivi. Innanzitutto, secondo Carli e Paniccia (2011), una nuova processualità
simbolico-collusiva veniva sostituita in maniera diretta alla precedente: se l’obiettivo
della riforma basagliana era quello di sopprimere il vecchio “patto tra
psichiatria e contesto sociale” – per cui ogni comportamento deviante dai
canoni del sistema di convivenza sociale veniva etichettato entro rigide
categorie psicopatologiche e contenuto entro logiche di controllo sociale – con
l’avvento della riforma antipsichiatrica si colludeva nuovamente con la cultura
e le istanze riformiste dell’epoca “senza la mediazione – però – di un pensiero
sulle dinamiche simboliche che stavano organizzando l’evento” (Carli &
Paniccia, 2011, p. 37). In secondo
luogo, secondo gli autori, il principio di reinserimento nel tessuto familiare
e sociale non fu sostenuto dalla implementazione di nuove e adeguate pratiche e
strutture psichiatriche in grado di accogliere adeguatamente la sofferenza
mentale, anche dopo il ricovero nei SPDC (Carli & Paniccia, 2011;
Costantini, 2000).
Nei decenni successivi la riforma basagliana, a seguito
della constatazione di una carenza nella proposta di tecniche scientifiche e
strumenti pratici di reinserimento del malato mentale nel tessuto familiare e
sociale, si assiste ad una progressiva diffusione dell’attività
psicoterapeutica in affiancamento all’azione svolta agli istituti di sanità
mentale (Carli & Paniccia, 2011; Vigorelli, 2008). Poichè emerge con sempre
maggiore chiarezza che la malattia mentale va iscritta all’interno di una
processualità relazionale, la diffusione della pratica psicoterapeutica ha
rappresentato uno strumento utile per occuparsi non solo del reinserimento del
malato mentale all’interno della rete familiare e sociale, ma anche per
riflettere sulle relazioni fra i diversi istituti di cura, sul rapporto che
intercorre fra i professionisti in esse operanti, sulla relazione fra operatori
e pazienti e sulla relazione fra gli stessi pazienti ospiti dei vari centri
territoriali che si occupano di crisi, riabilitazione e reinserimento sociale.
Anche se l’affermarsi della psicoterapia all’interno degli istituti che si
occupano di salute mentale ha visto per lungo tempo il predominio di approcci
cognitivisti e sistemico-relazionali (Carli & Paniccia, 2011), negli ultimi
decenni una buona mole di letteratura è stata prodotta anche in ambito
psicoanalitico[7]
con l’obiettivo di ampliare le opportunità di applicazione della psicoanalisi
nei contesti istituzionali della salute mentale (Ronchi, 2003).
[1] Militante
nel Patrito Socialista Italiano, Franco Basaglia si laurea in Medicina e
Chirurgia nel 1949. Ispirato al pensiero esistenzialista di Sartre,
Merleau-Ponty, Husserl e Heidegger, si specializza in Malattie Nervose e
Mentali nel 1953. Dopo una breve docenza in psichiatria, abbandona la carriera
universitaria e nel 1962 si trasferisce a Gorizia dove dirige l’Ospedale
Psichiatrico e applica il suo modello rivoluzionario di comunità terapeutica.
Vicino alle correnti psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed
esistenziale (Karl Jaspers, Eugéne Minkowski, Ludwig Binswanger), ma anche al
pensiero di Michel Foucault ed Erving Goffman per la critica all’istituzione
psichiatrica, ha lottato in prima linea per la profonda trasformazione
dell’approccio alla cura della malattia mentale in Italia. Fonte: Wikipedia,
https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Basaglia.
[2]
Per la sintetica ricostruzione storica dei movimenti politico-sociali che
hanno condotto all’istituzione e alla successiva abolizione dell’assistenza
manicomiale ho fatto riferimento alla dispensa a cura di Edoardo Re “I servizi di Salute Mentale: storia e
organizzazione istituzionale”. La pubblicazione (Fonte:
http://www.news-forumsalutementale.it/public/2009/10/servizi-Niguarda.pdf)
raccoglie i contenuti esposti nei corsi di Teoria e storia dell’Analisi
Istituzionale (prof. Angelo Cocchi) e di Organizzazione e Dinamiche
Istituzionali (dott. Edoardo Re) svolti nell’anno accademico 2005–2006 presso
la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Università degli Studi di
Milano, Istituto di Psicologia della Facoltà Medica.
[3] Laureato
all’Università di Tolosa in Medicina nel 1773, Philippe Pinelle cominciò ad
interessarsi allo studio scientifico della malattia mentale nel 1987 e viene
ricordato per l’atto di sfida alla politica di segregazione del tempo liberando
dalle catene i malati mentali relegati all’interno degli ospizi che ospitavano gli
emarginati. Inaugurò la tradizione di “cura morale” della malattia mentale,
contribuendo dunque ad avverare una svolta fondamentale per gli sviluppi della
psichiatria. Fonte: Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Philippe_Pinel.
[4]
Come ad esempio il Regno di Toscana che per mano di Giolitti aveva già
applicato la terapia morale di stampo pineliano.
[6] L’istituzione
del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) consente di raggruppare in un unico
blocco le diverse strutture operanti sul territorio: i Centri di Salute Mentale
(CSM) per l’assistenza diurna; i Centri Diurni (CD) con accesso
semiresidenziale; le Strutture Residenziali (SR), distinte in residenze
terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative; i Servizi Psichiatrici di
Diagnosi e Cura (SPDC) e i Day-hospital (DH).
[7] Ronchi, E., Ghilardi, A. Professione Psicoterapeuta. Il lavoro di gruppo nelle istituzioni, Franco Angeli, Milano, 2003. Gli autori sottolineano l’importanza del processo di rilettura del paradigma psicoanalitico alla luce degli apporti di altre scienze e discipline (genetica, matematica, fisica, teoria della relatività, fisica quantistica, epistemologia) da un lato, e della richiesta che proviene dal sociale dall’altro. In particolare, rispetto a quest’ultimo aspetto, l’idea dello psicoanalista seduto di fronte al paziente sdraiato su un lettino è ormai uno stereotipo poco aderente alla realtà della pratica professionale per la maggior parte dei professionisti del settore.
Bibliografia
Carli, R., Paniccia, R. M. (2011). La cultura dei Servizi di Salute Mentale. Dai malati psichiatrici alla nuova utenza: l’evoluzione della domanda di aiuto e delle dinamiche di rapporto, Franco Angeli, Milano.
Carli, R. (2012). Il Tirocinio in ospedale. Rivista di Psicologia Clinica, 1, pp. 3-20.
Costantini, A. (2000). Psicoterapia di gruppo a tempo limitato. Basi teoriche ed efficacia clinica. McGraw-Hill, Milano.
Vigorelli, M. (2008). Il lavoro della cura nelle istituzioni. Progetti, gruppi e contesti nell’intervento psicologico. FrancoAngeli, Milano.
Ronchi, E. (2003). Cambia la cultura, cambiano i pazienti, cambia la patologia: cambia la psicoterapia? Psichiatria generale e dell’età evolutiva, (40), 2, pp. 212-220, La Garangola, Padova.