
“La depressione è un vuoto insidioso che striscia nel tuo cervello e manda la tua mente fuori strada. E’ la completa assenza di pensiero razionale. E’ un freddo glaciale, con una nebbia orribile, terribile e pericolosa che si diffonde in tutto ciò che resta della tua mente. All’inizio ho provato ad ignorarla, a forzare i miei occhi e la mia mente a leggere o vestirmi o alzarmi per colazione, nonostante il mostro invadente. Poi mi sono stancata […] e ho smesso di provarci. I meandri della mia mente si sono disintegrati prima di me e non potevo fare nulla per fermare, migliorare o cambiare questa cosa” (Karp, 1996, p. 23).
Questo breve estratto narra, attraverso le parole di una donna, Nina, della profonda condizione depressiva di cui soffre. Nina riferisce una sensazione di vuoto che la inonda, l’infelicità che la assilla e la profonda apatia che la immobilizza a letto. Una sensazione paragonata ad un mostro invadente, afferma, che è difficile estirpare…
I sintomi depressivi rientrano all’interno della macro-categoria dei disturbi dell’umore, quest’ultimo definibile come “la tonalità emotiva di fondo, caratterizzata da una certa durevolezza, che in misura più o meno maggiore influenza la percezione, i pensieri e il comportamento dell’individuo” (Rossi Monti, 2016, p.126). Per definizione, l’umore si muove all’interno di un continuum, ai cui estremi (patologici) si collocano i due poli dell’umore depresso (polo in difetto con apatia, abbattimento, anedonia) e maniacale (polo in eccesso con incremento dell’attività psicomotoria, euforia patologica e senso di grandiosità). Occorre precisare che non è corretto considerare la mania come l’opposto dell’umore depresso, in quanto sono entrambe manifestazioni estreme di un’alterazione dell’umore. L’opposto delle due condizioni è infatti un umore normale. Secondo Rossi Monti (2016) è più utile considerare la mania come il rovescio della medaglia della depressione.
Infelicità, indifferenza alla vita, sensazione di vuoto interiore che può raggiungere livelli di disperazione talmente profonda da indurre a tentare il suicidio; alterazione del sonno e dell’appetito; sensazione di affaticamento e mancanza di energia che conduce a vivere in una condizione di immobilismo e apatia che impedisce di svolgere le normali attività della vita quotidiana, con la conseguenza di incrementare il senso di inutilità e di colpa che affligge la persona. E’ inoltre frequente che ci si ostini ad infierire contro se stessi attraverso autocritiche severe e punitive, che una bassa autostima costringa a sentirsi non all’altezza in numerose situazioni di vita, soffrendo tragicamente la paura che gli altri possano non approvarci o non riconoscerci come degni di amore e attenzioni. Si può anche acuire la paura di essere abbandonati, isolati e non amati (Blatt, 2004). Per alleviare l’umore depresso e il senso di disperazione si ricorre non di rado all’uso/abuso di alcol o altre sostanze (APA, 2008). E’ possibile, infine, che nelle condizioni più gravi si manifestino sintomi psicotici. Tutti questi vissuti e comportamenti rappresentano segni di dinamiche emotive, cognitive e somatiche che innescano una sorta di vortice, un circolo vizioso in cui ci si sente intrappolati e che costringe ad uno stato di “oppressione depressiva”.
Già nel 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definiva la depressione un’emergenza globale e la seconda causa principale di disabilità nel mondo (Rossi Monti, 2016). I dati aggiornati al Gennaio 2020 raccontano di 264 milioni di persone sofferenti di disturbi depressivi (https://www.who.int/en/news-room/fact-sheets/detail/depression). Uno dei dati più impressionanti forniti dall’OMS riguarda la scarsa attenzione verso questo disturbo, sopratutto nei paesi in via di sviluppo. Tra il 76% e l’85% delle persone depresse, in questi paesi, non riceve cure adeguate. Fra le cause principali di questa incuria riscontriamo mancanza di risorse, mancanza di operatori sanitari qualificati e lo stigma sociale associato in genere ai disturbi mentali. Un altro dato preoccupante riguarda il fatto che, sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli economicamente sviluppati, la valutazione e la diagnosi di disturbo depressivo è spesso imprecisa o inadeguata. E’ inoltre diffusa la tendenza a sovra-diagnosticare il disturbo depressivo con la conseguente prescrizione di farmaci non necessari (https://www.who.int/en/news-room/fact-sheets/detail/depression). A tal proposito, una questione ampiamente dibattuta nella creazione della quinta versione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) riguarda, per esempio, il rischio di medicalizzare l’esperienza interiore e dei vissuti legati al lutto. La perdita di una persona cara, infatti, suscita vissuti ed esperienze emotive universali e profondamente umane: il dolore della mancanza. “[…] Sentimenti di profonda tristezza e nostalgia, di perdita irrimediabile, […] ricordi e immagini della persona scomparsa, […] ripiegamento nella propria interiorità e nel proprio dolore. […] Insonnia, disappetenza, difficoltà di concentrazione e senso di stanchezza compromettono l’efficienza fisica della persona in lutto, accentuando il suo ritiro dalla vita” (Carmassi et al., 2016). In altre parole, la naturale reazione al lutto induce segni e sintomi depressivi che si focalizzano sul tema della perdita della persona amata e che generalmente si risolvono con il passare del tempo soggettivo e coerentemente alle attitudini emotive e di adattamento che definiscono il mondo interno della persona. Il dibattito, pertanto, si è focalizzato su una serie di questioni: se la reazione emotiva al lutto e la sua elaborazione vengono collocate all’interno della diagnosi di “disturbo depressivo maggiore”, non si corre il rischio di medicalizzare un fenomeno definibile, dal punto di vista antropologico, normale come il lutto e la sua elaborazione? qual è il confine tra una reazione depressiva al lutto (oggi, nel DSM-5 si fa riferimento al “disturbo da lutto persistente complicato”) e una normale reazione emotiva alla perdita di una persona amata? (https://www.thelancet.com/action/showPdf?pii=S0140-6736%2812%2960258-X).
Questo dibattito induce non solo ad utilizzare con cautela le categorie diagnostiche utili ad orientare i trattamenti farmacologici dei disturbi mentali, ma anche alla necessità di allargare il quadro sintomatologico alla complessità della persona che ne è portatrice. Come già sottolineato (https://www.robertamessinapsi.com/2020/05/13/la-diagnosi-in-psichiatria-funzioni-e-sviluppi-del-manuale-diagnostico-e-statistico-dei-disturbi-mentali-dsm; https://www.robertamessinapsi.com/2020/02/28/la-scoperta-del-sintomo), la possibilità di utilizzare un approccio diagnostico che tenga conto non solo della descrizione dei sintomi, ma anche dell’individuo che li esprime, della sua soggettività e dei suoi snodi di vita significativi, consente di gettare luce lì dove i sintomi annebbiano la vista, di avvicinarsi all’umanità della persona per comprendere la natura e il senso sua della sofferenza psichica: il perché, il quando e il come essa si manifesta.
Bibliografia
American Psychoanalytic Association, Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM), Trad. it., PDM Manuale Diagnostico Psicodimanico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.
Blatt, S. J. (2004). Experiences of Depression: Theoretical, Research, and Clinical Perspectives. American Psychological Association Press, Washington, DC.
Carmassi, C., Conversano, C., Pinori, M. Beltelloni, C. A., Dalle Luche, R., Gesi, C., Dell’Osso, L. (2016). Il lutto complicato nell’era del DSM-5. Rivista di Psichiatria, 51(6): 231-237.
First, M. B. (2015). DSM-5. Diagnosi differenziale. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Karp, D. A. (1996). Speaking of Sadness: Depression, Disconnection and the Meaning of Illness, Oxford University Press, Oxford.
Rossi Monti, M. (2016). Manuale di psichiatria per psicologi. Carocci Editore, Roma.