Breve storia dei servizi di salute mentale

Conoscere le trasformazioni politiche, sociali e culturali della cura della salute mentale in Italia aiuta ad avvicinarci alla cura della nostra salute mentale

La nave dei folli – Hieronymus Bosch, 1494

E’ con la legge 180 del 1978 (“Legge Basaglia”[1]) che per la prima volta in Italia viene istituito il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) all’interno degli Ospedali Generali, e più precisamente nei reparti di Psichiatria. La nascita delle nuove istituzioni che si occupano dell’assistenza e della cura della malattia mentale và iscritta all’interno di un profondo mutamento culturale che si è realizzato proprio a partire dal ventennio compreso fra gli anni ’60 e ‘70. In un periodo storico caratterizzato da importanti turbolenze governative, l’Italia della Democrazia Cristiana si apre all’opposizione comunista, accogliendo valori di solidarietà e giustizia sociale la cui espressione si è realizzata attraverso numerose riforme come, ad esempio, l’approvazione della legge sul divorzio in occasione del referendum del 1974(Carli & Paniccia, 2011). Il nuovo mandato sociale andava contro il “perbenismo” borghese aderente ad uno standard conformista che escludeva ed emarginava chi mostrava la propria diversità, come i portatori di handicap o i malati mentali.

Prima della legge 180, infatti, il malato mentale, o alienato, era sottoposto a politiche di controllo giuridico e sociale all’interno di luoghi preposti alla sua reclusione. Se nel Medioevo[2] l’interpretazione di carattere religioso guidava la comprensione e la gestione della malattia mentale (quest’ultima era infatti assimilata alla possessione demoniaca o all’essere sottoposti al castigo divino), l’avvento dell’illuminismo nel XVIII secolo apre nuove prospettive e approcci: in netta opposizione al dogmatismo religioso, la corrente illuminista conduce ad una concezione scientifica della sofferenza mentale, per la prima volta identificata come patologia organica. Tuttavia, è solo a partire dal secolo successivo che, con il positivismo, si assiste alla nascita dei “manicomi di cura” che si sostituiscono agli spazi precedentemente utilizzati per accogliere, in maniera indifferenziata, i malati di mente e gli emerginati sociali. In accordo ai principi della cura pineliana[3], l’istituzione dei manicomi consentì, per la prima volta, di attuare osservazioni scientifiche sulla sofferenza mentale e di introdurre un rinnovato interesse per il trattamento di queste patologie.

Salvo rare eccezioni[4], prima dell’Unificazione, l’Italia non aveva definito una precisa normativa che regolamentasse l’assistenza ai malati di mente. Dopo svariati decenni di dibattiti e proposte di legge, nel 1904, attraverso la Legge Giolitti si applicò un modello psichiatrico di assistenza fondato sulla istituzione manicomiale e sulla necessità di garantire la sicurezza nella società. La reclusione, che avveniva con una ordinanza della polizia, era di competenza del Ministero dell’Interno e non del Ministero della Sanità: pertanto, il ricovero era disposto in base ad una valutazione della pericolosità sociale ed era finalizzato ad una netta separazione dei folli dai sani di mente.

Un decennio prima della legge 180 iniziano a comparire i primi tentativi di cambiamento nell’assistenza della malattia mentale: con la legge 431 del 1968, infatti, vengono istituite le prime Provvidenze per l’Assistenza Psichiatrica, come l’istituzione del ricovero volontario senza internamento giudiziario e l’affermazione di nuove figure professionali quali psicologi, psicoterapeuti, neurologi e assistenti sociali. All’interno della più ampia riforma del Sistema Sanitario Nazionale – SSN – (legge 23 Dicembre 1978, n.833), attraverso la legge 180 del 1978, viene interrotto l’internamento negli istituti manicomiali e vietata la costruzione di nuovi Ospedali Psichiatrici. Con l’introduzione della Legge Basaglia il ricovero del malato mentale non è più competenza del Ministero dell’Interno, bensì del Ministero della Salute. Dal Codice Penale vengono inoltre soppressi i termini “alienato” e “stabilimento di cura”. Il malato mentale ha dunque la possibilità di eseguire accertamenti e trattamenti sanitari in regime volontario presso i reparti di psichiatria degli ospedali generali, dove viene istituito il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Quest’ultimo servizio provvede inoltre al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) nei casi di individui affetti da alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici non realizzabili attraverso misure extra-ospedaliere e quando la persona si rifiuta di accogliere il trattamento. Il TSO (che è sempre preceduto da un Accertamento Sanitario Obbligatorio – ASO) è disposto dal Sindaco quale autorità sanitaria della città e gestito dal Giudice Tutelare con funzione di controllo e garanzia. Pertanto il TSO viene inteso come strumento di difesa e tutela dei diritti del cittadino e non come strumento di emarginazione. A partire dal 1992, con il Decreto legislativo n. 502, si avvia un processo di ulteriore riorganizzazione del SSN ispirato ai principi di aziendalizzazione, responsabilizzazione e umanizzazione dello stesso. E’ con il Progetto Obiettivo 1998-2000[5] che, infine, i servizi di salute mentale assumono la configurazione che oggi conosciamo[6].

Fra i principali problemi riconducibili alla nuova riforma, quello più rilevante rispetto alla gestione dei servizi sanitari di salute mentale riguarda le nuove responsabilità “aziendali” di cui sono investiti i medici, i quali devono occuparsi della domanda di cura dell’utenza a partire dalla distribuzione efficace delle risorse economiche disponibili e stanziate dal governo. Ciò implica che se con il regime della legge 180/178 la spesa sanitaria si adeguava agli obiettivi di cura, con la riorganizzazione del SSN sono i bisogni di cura dei pazienti che devono adattarsi ad un piano finanziario che và ottimizzato. Posizioni critiche (Carli, 2012) affermano che il reale problema non risiede nella mera aziendalizzazione degli ospedali, quanto più alla necessità di rispondere ad esigenze economiche ambigue e politicizzate, che hanno condotto a dimenticarsi del paziente e alla mortificazione delle risorse interne.

La logica antipsichiatrica alla base della legge Basaglia era ispirata a ideali di denuncia di ogni forma di discriminazione della “diversità” e mirava all’abolizione di un sistema di controllo secondo il quale il malato mentale doveva adeguarsi alle regole dell’ospedale psichiatrico. Tuttavia, l’applicazione della legge fu di difficile realizzazione per svariati motivi. Innanzitutto, secondo Carli e Paniccia (2011), una nuova processualità simbolico-collusiva veniva sostituita in maniera diretta alla precedente: se l’obiettivo della riforma basagliana era quello di sopprimere il vecchio “patto tra psichiatria e contesto sociale” – per cui ogni comportamento deviante dai canoni del sistema di convivenza sociale veniva etichettato entro rigide categorie psicopatologiche e contenuto entro logiche di controllo sociale – con l’avvento della riforma antipsichiatrica si colludeva nuovamente con la cultura e le istanze riformiste dell’epoca “senza la mediazione – però – di un pensiero sulle dinamiche simboliche che stavano organizzando l’evento” (Carli & Paniccia, 2011, p. 37).  In secondo luogo, secondo gli autori, il principio di reinserimento nel tessuto familiare e sociale non fu sostenuto dalla implementazione di nuove e adeguate pratiche e strutture psichiatriche in grado di accogliere adeguatamente la sofferenza mentale, anche dopo il ricovero nei SPDC (Carli & Paniccia, 2011; Costantini, 2000).

Nei decenni successivi la riforma basagliana, a seguito della constatazione di una carenza nella proposta di tecniche scientifiche e strumenti pratici di reinserimento del malato mentale nel tessuto familiare e sociale, si assiste ad una progressiva diffusione dell’attività psicoterapeutica in affiancamento all’azione svolta agli istituti di sanità mentale (Carli & Paniccia, 2011; Vigorelli, 2008). Poichè emerge con sempre maggiore chiarezza che la malattia mentale va iscritta all’interno di una processualità relazionale, la diffusione della pratica psicoterapeutica ha rappresentato uno strumento utile per occuparsi non solo del reinserimento del malato mentale all’interno della rete familiare e sociale, ma anche per riflettere sulle relazioni fra i diversi istituti di cura, sul rapporto che intercorre fra i professionisti in esse operanti, sulla relazione fra operatori e pazienti e sulla relazione fra gli stessi pazienti ospiti dei vari centri territoriali che si occupano di crisi, riabilitazione e reinserimento sociale. Anche se l’affermarsi della psicoterapia all’interno degli istituti che si occupano di salute mentale ha visto per lungo tempo il predominio di approcci cognitivisti e sistemico-relazionali (Carli & Paniccia, 2011), negli ultimi decenni una buona mole di letteratura è stata prodotta anche in ambito psicoanalitico[7] con l’obiettivo di ampliare le opportunità di applicazione della psicoanalisi nei contesti istituzionali della salute mentale (Ronchi, 2003).


[1]             Militante nel Patrito Socialista Italiano, Franco Basaglia si laurea in Medicina e Chirurgia nel 1949. Ispirato al pensiero esistenzialista di Sartre, Merleau-Ponty, Husserl e Heidegger, si specializza in Malattie Nervose e Mentali nel 1953. Dopo una breve docenza in psichiatria, abbandona la carriera universitaria e nel 1962 si trasferisce a Gorizia dove dirige l’Ospedale Psichiatrico e applica il suo modello rivoluzionario di comunità terapeutica. Vicino alle correnti psichiatriche di ispirazione fenomenologica ed esistenziale (Karl Jaspers, Eugéne Minkowski, Ludwig Binswanger), ma anche al pensiero di Michel Foucault ed Erving Goffman per la critica all’istituzione psichiatrica, ha lottato in prima linea per la profonda trasformazione dell’approccio alla cura della malattia mentale in Italia. Fonte: Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Basaglia.

[2]                     Per la sintetica ricostruzione storica dei movimenti politico-sociali che hanno condotto all’istituzione e alla successiva abolizione dell’assistenza manicomiale ho fatto riferimento alla dispensa a cura di Edoardo Re “I servizi di Salute Mentale: storia e organizzazione istituzionale”. La pubblicazione (Fonte: http://www.news-forumsalutementale.it/public/2009/10/servizi-Niguarda.pdf) raccoglie i contenuti esposti nei corsi di Teoria e storia dell’Analisi Istituzionale (prof. Angelo Cocchi) e di Organizzazione e Dinamiche Istituzionali (dott. Edoardo Re) svolti nell’anno accademico 2005–2006 presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Università degli Studi di Milano, Istituto di Psicologia della Facoltà Medica.

[3]             Laureato all’Università di Tolosa in Medicina nel 1773, Philippe Pinelle cominciò ad interessarsi allo studio scientifico della malattia mentale nel 1987 e viene ricordato per l’atto di sfida alla politica di segregazione del tempo liberando dalle catene i malati mentali relegati all’interno degli ospizi che ospitavano gli emarginati. Inaugurò la tradizione di “cura morale” della malattia mentale, contribuendo dunque ad avverare una svolta fondamentale per gli sviluppi della psichiatria. Fonte: Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Philippe_Pinel.

[4]                     Come ad esempio il Regno di Toscana che per mano di Giolitti aveva già applicato la terapia morale di stampo pineliano.

[5]             https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_558_allegato.pdf

[6]             L’istituzione del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) consente di raggruppare in un unico blocco le diverse strutture operanti sul territorio: i Centri di Salute Mentale (CSM) per l’assistenza diurna; i Centri Diurni (CD) con accesso semiresidenziale; le Strutture Residenziali (SR), distinte in residenze terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative; i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e i Day-hospital (DH).

[7]             Ronchi, E., Ghilardi, A. Professione Psicoterapeuta. Il lavoro di gruppo nelle istituzioni, Franco Angeli, Milano, 2003. Gli autori sottolineano l’importanza del processo di rilettura del paradigma psicoanalitico alla luce degli apporti di altre scienze e discipline (genetica, matematica, fisica, teoria della relatività, fisica quantistica, epistemologia) da un lato, e della richiesta che proviene dal sociale dall’altro. In particolare, rispetto a quest’ultimo aspetto, l’idea dello psicoanalista seduto di fronte al paziente sdraiato su un lettino è ormai uno stereotipo poco aderente alla realtà della pratica professionale per la maggior parte dei professionisti del settore.

Bibliografia

Carli, R., Paniccia, R. M. (2011). La cultura dei Servizi di Salute Mentale. Dai malati psichiatrici alla nuova utenza: l’evoluzione della domanda di aiuto e delle dinamiche di rapporto, Franco Angeli, Milano.

Carli, R. (2012). Il Tirocinio in ospedale. Rivista di Psicologia Clinica, 1, pp. 3-20.

Costantini, A. (2000). Psicoterapia di gruppo a tempo limitato. Basi teoriche ed efficacia clinica. McGraw-Hill, Milano.

Vigorelli, M. (2008).  Il lavoro della cura nelle istituzioni. Progetti, gruppi e contesti nell’intervento psicologico. FrancoAngeli, Milano.

Ronchi, E. (2003). Cambia la cultura, cambiano i pazienti, cambia la patologia: cambia la psicoterapia? Psichiatria generale e dell’età evolutiva, (40), 2, pp. 212-220, La Garangola, Padova.