La trasmissione psichica tra generazioni

I lutti non elaborati, le lacrime non versate, i segreti di famiglia, le identificazioni incoscienti e le lealtà familiari invisibili si trasferiscono ai figli e ai loro discendenti. Ciò che non viene espresso a parole, viene espresso con la sofferenza.” Schützenberger

The merry family. Jan Steen -1668

Tema di grande fascino in ambito psicologico è lo studio della famiglia, delle relazioni fra i suoi membri e degli effetti che queste relazioni sortiscono sullo psichismo di ciascun individuo. Veniamo al mondo all’interno di trame psicologiche di significato costituite attraverso le generazioni familiari. Il pensiero sul nuovo nato esiste al di là e ben prima del parto: esso si fonda, contemporaneamente, sui legami tra generazioni e sui legami tra contemporanei. Ciò implica che la vita psichica si trasmette, passa da individuo ad individuo e viaggia di generazione in generazione. Per dirla con le parole di Kaës (1993) si tratta di una “produzione intersoggettiva della psiche”, ovvero di un processo di circolazione e trasmissione di materia psichica che annoda soggettività e intersoggettività e che costituisce la base della formazione della vita psichica individuale e del suo funzionamento inconscio. Allo stesso modo, l’appartenenza del soggetto a diversi insiemi (gruppi, istituzioni, masse, famiglia) determina una pluralità di spazi psichici da cui l’individuo attinge per la formazione del proprio psichismo.

Se già Freud (1921) evidenziava la dimensione sociale e relazionale dello psichismo umano (1921), più recentemente, Napolitani estende la concezione della mente umana e del suo funzionamento ponendo in essa fondamenta intersoggettive. Il meccanismo psicologico dell’identificazione diventa centrale nella formazione della identità individuale: la relazionalità del nucleo familiare e successivamente della più ampia rete sociale viene incorporata nel bambino formando il suo mondo interno. Freud stesso, secondo Napolitani, «getta le premesse per il superamento della dicotomia tra individuale e sociale attraverso la formalizzazione di quel processo di identificazione per il quale la cultura, nei suoi significati intenzionali e prescrittivi, si insedia stabilmente nel cosiddetto “mondo interno” dell’individuo […]» (Napolitani, 1987, p.124).
Da queste premesse, l’autore teorizza il concetto di gruppalità interna, intesa come «l’esito della internalizzazione, attraverso processi identificatori, dell’insieme di relazioni delle quali l’individuo, sin dalla nascita, entra a far parte come l’elemento personale di una circolarità di significazioni e di intenzionamenti» (Napolitani & Maggiolini, 1989). Gli oggetti internalizzati e le relazioni fra loro costituiscono la cosiddetta identità identificatoria – ovvero l’immagine di sè costruita attraverso gli insegnamenti tramandati dai soggetti del – nucleo antropologico (o matrice culturale) di cui il bambino fa parte (idem) – che nel corso dello sviluppo andrà a confliggere e, dunque, ad essere riconcepita a partire dal nucleo più autentico e creativo di sè (autós): proprio la possibilità di trasgredire i modelli culturali tramandati e innestati nella propria identità identificatoria consente all’individuo di aprirsi al mondo attraverso la parte più autentica di sè, pena la sofferenza psichica che finisce per configurarsi in psicopatologia.

La ricerca e gli studi sul tema della trasmissione familiare della vita psichica hanno gettato luce sulle modalità benigne o patologiche attraverso cui si realizzano tali processi. Kaës ha notato che, così come il narcisismo del bambino si poggia sui desideri irrealizzati dei genitori, allo stesso modo la trasmissione transgenerazionale della vita psichica di fonda sul concetto di negativo, ovvero su tutto ciò che negli accadimenti familiari generazionali è rimasto incistato, bloccato, difettoso. Il “negativo” è ciò che nella storia familiare non può essere narrato, raccontato e trasformato psichicamente in senso maturativo. Esso è ciò che, avendo un significato bruto o bizzarro, non può essere trasfuso da una generazione ad un’altra oppure viene trasportato in maniera difettosa, determinando sofferenza e patologia mentale nell’individuo e nella famiglia. Nella trasmissione transgenerazionale del negativo i vissuti trasmessi sono impensabili, non rappresentabili, e indicibili: diventano pertanto segreti, non detti, pseudo-verità. Questi elementi psichici non dicibili sono emotivamente carichi e gravano sulle generazioni familiari determinando sofferenza psichica che i genitori chiedono ai figli di risolvere in un circolo vizioso che non ha fine, almeno fin quando tali contenuti emergono sul piano della coscienza e possono essere elaborati attraverso la creazione di nuovi significati, di spazi psichici generativi in cui è possibile dare senso e risignificare la sofferenza tramandata e di cui si è stati per tanto tempo inconsapevolmente succubi.

Bibliografia

Kaës, R., Faimberg, H., Enriquez, M., Baranes, J.-J. (1993). Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma, Borla.

Freud, S. (1921). Massenpsychologie und Ich-Analyse; trad. It. Psicologia della masse e analisi dell’Io, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1986, vol. 9.

Napolitani, D., Maggiolini, A. (1989). Gruppalità interna. Rivista italiana di gruppoanalisi, vol. IV, n. 1-2.

Napolitani, D. (1987). Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino, 1987.

Nuovi nodi nella malattia mentale: la soggettività intorpidita

“Vi sono persone che possono condurre una vita soddisfacente, fare del lavoro che può anche essere di valore eccezionale, ed essere tuttavia schizoidi o schizofrenici. Possono essere malate in senso psichiatrico per via di un precario senso di realtà. Per equilibrare questo, si dovrebbe asserire che vi sono altri che sono così fermamente ancorati alla realtà percepita oggettivamente da essere malati nella direzione opposta, di non essere in contatto con il mondo soggettivo e con l’approccio creativo alla realtà” (Winnicott, 1971).

The invention of life, 1928. R. Magritte

Questo articolo offre uno spunto di approfondimento su una nuova forma di sofferenza individuale, quella che Bollas (2018) chiama intorpidimento della soggettività, o, ancora, parziale distruzione del fattore soggettivo che implica un vuoto interiore, un senso di sè smarrito, una scarsa inclinazione a vivere l’esperienza soggettiva, una identità che non poggia su un approfondito lavoro mentale. L’autore definisce queste personalità normotiche, alludendo ad una persona “anormalmente normale. Troppo stabile, sicuro, tranquillo ed estroverso, […] totalmente disinteressato alla vita soggettiva.” (Bollas, 2018, p 114). Questo dis-conoscimento di sè, infatti, è perfettamente inserito all’interno di una vita sociale, lavorativa, economica spesso impeccabile, infiocchettata alla perfezione all’interno di un mondo fatto di oggetti acquisiti che finiscono per definire la soggettività stessa. Per usare le parole di Bollas: “il normotico si rifugia negli oggetti concreti. E’ posseduto dalla pulsione a definire la soddisfazione mediante l’acquisizione di oggetti, e quindi misura il valore delle altre persone in termini di quantità di oggetti acquisiti. Ma questo tipo di appropriazione non nasconde alcuna passione […]. Il normotico accumula oggetti concreti senza avere alcun desiderio; essi semplicemente appaiono nella sua vita come se fossero il risultato logico e il simbolo della sua personalità” (Bollas, 2018, p. 116). L’attitudine acquisita, già durante l’infanzia, è quella di deviare lo sguardo dal mondo psichico per concentrarsi su tutto ciò che è esteriore e concreto, relegando ad un rumore di fondo tutto ciò che ha a che fare con la vita interiore. Ciò che conta è che il Sè venga considerato come normale, poggiando la valutazione della propria soggettività su parametri esterni, rigorosamente all’interno della norma. E’ importante essere una brava persona, ben inserita all’interno delle vicissitudini sociali, qualcuno che si desidera avere come amico: “il modo in cui il sè viene trattato come un oggetto è simile all’interesse mostrato verso la qualità di un prodotto dall’ufficio preposto ai controlli di qualità di un’azienda” (Bollas, 2018, p. 130).

Bollas ritiene che questo tipo di personalità sembra essere stato trascurato dalla psicoanalisi in quanto questo disturbo viaggia sull’asse della normalità. Uno sguardo attento, invece, coglie la profonda anormalità nell’essere eccessivamente normali. Diversamente dalla rottura psicotica, in cui si perde di vista l’orientamento di realtà, distaccandosene, la malattia normotica determina una rottura radicale dalla soggettività, una totale assenza dell’elemento soggettivo e un mancato riconoscimento del movimento interiore che lo caratterizza: “come la malattia psicotica è caratterizzata dal rivolgersi esclusivamente al mondo della fantasia e dell’allucinazione, così la malattia normotica può essere definita come il rivolgersi esclusivamente agli oggetti concreti e al comportamento convenzionale” (Bollas, 2018, p. 123), costringendo l’individuo dentro una spirale di superficialità, dove si esorcizza il complesso mondo delle esperienze soggettive.

Il rischio che comporta l’imponente costruzione delle difese normotiche è il crollo che ne deriva nel momento in cui si entra a contatto con la profondità del complesso mondo psichico. La perdita del lavoro, il lutto, il tumulto della fase di sviluppo adolescenziale, sono solo alcuni esempi di eventi di vita che, per essere elaborati, richiedono il contatto con la propria vita interiore, con il complesso mondo delle emozioni, con la necessità di nuotare dentro la complessità del vissuto soggettivo che si relaziona con il naturale corso delle cose. Non è improbabile, che dinanzi alla necessità di vivere esperienze soggettive crescenti, queste personalità finiscano per rivolgersi alle droghe o tentino il suicidio per anestetizzare le emozioni o per trovare un’alternativa al contatto con se stessi.

Per concludere, la cura della soggettività può passare attraverso la psicoterapia che attinge dalla psicoanalisi, intesa come scienza della soggettività. Da un punto di vista fenomenologico, la psicoanalisi colloca il punto di partenza nella “soggettività dell’individuo, e questo per ragioni strettamente filosofiche. (…) Non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono. Questa è la verità assoluta della coscienza che coglie se stessa (Sartre, 1958, trad. it. p. 61). In altre parole, è la nostra soggettività (pensieri, fantasie, desideri, pulsioni, sogni, incubi, ricordi, affetti, sentimenti e così via) che ci consente di esistere, di essere nel mondo attraverso noi stessi e il nostro mondo interiore. La psicoanalisi pone una lente di ingrandimento su questo universo soggettivo, affinché possa essere ri-conosciuto, esplorato, condiviso nella relazione terapeutica e indirizzato verso il benessere e la salute mentale.

Bibliografia.

Bollas, (2018). L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Sartre J. P. [1943]. L’essere e il nulla, Milano, Mondadori, 1958.

Winnicot, D.W. (1971). Il gioco: formulazione teorica. Trad. it. in Gioco e realtà. Armando, Roma 1974, pp. 29-100.