Al confine fra nevrosi e psicosi: la psicopatologia ‘borderline’.

‘A volte sto così male che passo ore a piangere. Piango piango senza sosta e mi sembra che tutto venga inghiottito in un nero senza fondo. Allora prendo le forbici e mi graffio. Lo faccio a ripetizione, finchè non vedo le ferite e il dolore arriva immenso e liberatorio.’ (Rossi Monti, 2016, p. 275).

Ricordo di un dolore, G. Pellizza – 1889

E’ verso la fine del XIX secolo che la comunità della salute mentale incorre nell’osservazione e tenta di spiegare una forma di sofferenza psichica profondamente caotica, caratterizzata da evidente instabilità dell’umore e dalla tendenza a scivolare verso stati psicotici (distacco dalla realtà), pur rimanendo – in un quadro di funzionamento generale – all’interno dei confini della nevrosi.

Nel 1938, Adolph Stern fornì un primo contributo nel problematizzare la condizione di quei pazienti la cui sofferenza non rientrava nella classica bipartizione nosografica nevrosi/psicosi. Utilizzò pertanto l’espressione borderline (che letteralmente significa linea di confine, limite) per caratterizzare quei pazienti che ‘si distinguevano per la loro apparente sanità, mostrando un buon esame della realtà e un Io sufficientemente integrato, che però poteva andare letteralmente in pezzi quando venivano posti in situazioni non strutturate o che favorivano la regressione’ (Rossi Monti, 2016). Nel 1953, in un saggio intitolato ‘Borderline State’, Robert Knight estende il riferimento del termine borderline da un gruppo di pazienti definibili come non nevrotici ad una categoria diagnostica descrittiva caratterizzata da incapacità nella gestione degli impulsi e da debolezza dell’Io. Negli anni ’50 e ’60, l’interesse per il disturbo borderline raggiunge il suo apice e diversi autori (come Grinker e al., 1968) individuano alcuni fattori comuni alle diverse sottocategorie della sindrome borderline, come ad esempio la rabbia intesa come stato affettivo principale, difficoltà relazionali, fragilità nella integrazione identitaria e stati depressivi. Fra i contributi in ambito psicoanalitico, spiccano le riflessioni di Otto Kernberg (1967) che ha qualificato il disturbo borderline come una precisa organizzazione della personalità, i cui criteri diagnostici derivano da una sua approfondita e sofisticata analisi strutturale (Kernberg, 1975): 1) Manifestazioni non specifiche di debolezza dell’Io, che si concretizzano nell’incapacità di posticipare il soddisfacimento degli impulsi e di modulare l’ansia; 2) Scivolamento verso processi di pensiero primario o psicotico, sopratutto in situazioni poco strutturate o sotto la pressione di intensi affetti; 3) Operazioni difensive specifiche, come la scissione, che producono la tendenza ad alternare comportamenti e atteggiamenti contraddittori, a qualificare le persone che fanno parte della cerchia sociale e familiare del paziente come “tutti buoni” o “tutti cattivi” e la tendenza a generare rappresentazioni di sé contraddittorie che coesistono e che si alternano; 4) Relazioni d’oggetto patologiche interiorizzate, che derivano dalla tendenza a idealizzare e svalutare gli altri (sotto l’effetto della difesa della scissione), disturbando profondamente la relazione (Gabbard, 2014).

Una caratteristica stabile del funzionamento borderline è l’umore depresso, a partire dal quale, spesso, generano intense crisi di rabbia. La sensazione di vivere sull’orlo della catastrofe relazionale (con familiari, partner, datori di lavoro, terapeuti), la sensazione di vuoto interiore, il terrore dell’abbandono, i comportamenti impulsivi, la difficoltà di mantenere una stabile percezione di sè e della propria identità, sono tutti fattori che rinforzano questa condizione umorale cui si fa fronte anche con gesti estremi come l’autolesionismo e comportamenti potenzialmente dannosi, come comportamenti sessuali rischiosi, abuso di sostanze, spese sconsiderate, guida spericolata, abbuffate e così via (APA, 2013).

Gli studi empirici sulla eziologia del disturbo hanno evidenziato la natura multifattoriale di questo complesso fenomeno psichico: mancanza di sintonizzazione con le figure di attaccamento, presenza di una predisposizione costituzionale, esperienze di trascuratezza, traumi precoci e ripetuti nel corso dello sviluppo, abusi sessuali, rappresentano i principali fattori causali che concorrono a configurare la psicopatologia borderline (McWilliams, 2012).

Bibliografia

APA – AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM-5, APA, Washington DC (Trad. it. DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano 2014).

Gabbard, G.O. (2014). Psichiatria psicodinamica.Quinta edizione basata sul DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Grinker, R., Werble, B., Drye, R. (1968). The Borderline Syndrome: A Behavioral Study of Eco Functions. Basic Books, New York.

Kernberg, O. F. (1967). Borderline Personality Organization, Journal of the American Psychoanalitic Association, 15, pp. 641-85.

Kernberg, O. F. (1975). Sindromi marginali e narcisismo patologico. Tr. It. Boringhieri, Torino, 1978.

Knight, R.(1953). Borderline States, The Bullettin of the Menninger Clinic, 17, pp. 1-12.

McWilliams, N. (2012). La diagnosi psicoanalitica. Seconda edizione riveduta e ampliata. Caretti, V., Schimmenti, A. (a cura di). Astrolabio, Roma.

Rossi Monti, M. (2016). Manuale di psichiatria per psicologi. Carocci Editore, Roma.

Non c’è salute senza salute mentale

Secondo Basaglia la follia è una condizione umana e la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia

L’assenzio (L’Absinthe) – Edgar Degas, 1876

Fra le tante, preziose, riflessioni di Franco Basaglia riporto in questo articolo di approfondimento uno scorcio di contributo offerto dal noto psichiatra in occasione delle Conferenze Brasiliane nel 1979:

Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.” (Basaglia, Conferenze brasiliane, 1979).

Malgrado diversi passi in avanti siano stati fatti nel campo della salute mentale nel corso dei secoli, rimane tutt’oggi un inquietante alone di pregiudizio e, forse, di mistero ad appannare la comprensione della sofferenza psicologica. Per questo motivo mi sembra utile citare una recente definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ambito del Piano d’azione per la salute mentale 2013-2020: “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità. […] Una buona salute mentale consente agli individui di realizzarsi, di superare le tensioni della vita di tutti i giorni, di lavorare in maniera produttiva e di contribuire alla vita della comunità. Cosa si intende per salute e benessere mentale? È uno stato di benessere emotivo e psicologico cui l’individuo tende costantemente nelle alterne situazioni dell’esistenza e nel quale è in grado di: • realizzare i propri bisogni a partire dalle proprie capacità cognitive ed emozionali; • esercitare la propria funzione nella società e nella vita di comunità costruendo e mantenendo buone relazioni; • far fronte alle esigenze della vita quotidiana, superando le tensioni e gestendo ed esprimendo le proprie emozioni e le proprie capacità di cambiamento per raggiungere una soddisfacente qualità di vita; • operare le proprie scelte ed esprimere la propria creatività e spirito di iniziativa lavorando in maniera produttiva.

Ciascuno di noi, nel corso della propria esistenza, sperimenta una quota di disagio legata ad ansie, preoccupazioni, paure, rabbia, frustrazione e così via. Quando la portata di tali disagi non è più gestibile a causa della mancanza o della fragilità di risorse interne o esterne all’individuo, è possibile che si manifestino problemi di salute mentale. Il Ministero della Salute distingue il disagio mentale dal disturbo mentale e dalla malattia mentale (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_422_allegato.pdf). Se il primo è caratterizzato da una condizione di sofferenza legata a difficoltà di varia natura nella vita affettiva e di relazione senza che si instauri un sintomo specifico, il secondo coincide con quella condizione in cui l’individuo non trova risoluzione alla sofferenza posta dalla condizione di disagio; pertanto, la prolungata e intensa sofferenza può determinare alterazioni del pensiero e/o dei comportamenti che si manifestano attraverso i sintomi. La stabilizzazione e l’incuria del disturbo mentale possono finire per configurare una vera e propria condizione di malattia mentale a lungo termine, che, se non adeguatamente trattata, può deteriorare in disabilità interferendo con la vita sociale e lavorativa e aggravarsi con il rischio di emarginazione sociale.

Oggi, diverse istituzioni pubbliche e private sono nelle condizioni di prendere in carico le diverse forme di sofferenza genericamente elencate sopra. La consultazione psicologica, la psicoterapia o l’accoglienza in strutture ospedaliere e comunitarie sono tutti esempi di strumenti utili ad affrontare le diverse forme di sofferenza mentale. Qualunque approccio alla cura, inoltre, si basa sulla consapevolezza di guardare al problema attraverso una visione complessa e multidimensionale. In altre parole, la clinica della sofferenza mentale non può tralasciare, nella formulazione di diagnosi e progetti terapeutici, le riflessioni sulla cultura che accoglie disagi, sintomi e malattie mentali. Entrare a contatto con professionisti della salute mentale garantisce dunque una corretta informazione sui disagi che si vivono e sul diritto di ricercare o rafforzare gli strumenti e le risorse utili a perseguire il benessere mentale. Tuttavia, il pregiudizio che ancora oggi si accompagna alla sofferenza mentale spinge a vergognarsi della propria condizione di disagio tanto da evitare di chiedere un aiuto professionale e, nei casi più gravi, procura emarginazione e discriminazione ai danni delle persone sofferenti. Bisogna infatti ricordare che “i diritti delle persone con disturbo mentale non sono differenti da quelli di tutti gli altri cittadini, secondo il dettato costituzionale, indipendentemente dalla concreta possibilità di esercitarli a pieno. La particolare vulnerabilità di tali soggetti richiede, infatti, che sia rafforzato, per essi, il riconoscimento di piena cittadinanza, concretamente difeso e promosso sia attraverso il rispetto dei diritti fondamentali che l’adempimento dei doveri (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_422_allegato.pdf).