L’onda emotiva del trauma

The door has opened wide
I’m turning with the tide
Looking through her eyes (Dream Theater, Through her eyes – Metropolis p. 2 -Scenes from a memory)

Georgij Dmitriev, Onda e sole (2016)

Gli eventi traumatici sono generalmente definiti come accadimenti stressanti, gravi e circoscritti nel tempo (ad esempio una violenza, una calamità naturale, un incidente stradale e così via) dai quali non ci si può sottrarre e che sovrastano la capacità di resistenza dell’individuo (van der Kolk, 1996; Liotti & Farina, 2011). Gli sviluppi traumatici fanno invece genericamente riferimento a condizioni di minaccia prolungate nel tempo che si verificano nel corso dello sviluppo dell’individuo, come ad esempio condizioni di violenza e trascuratezza entro famiglie maltrattanti (Liotti & Farina, 2011) .

Lo studio dell’esperienza traumatica è stato approfondito nel corso dei decenni focalizzando l’attenzione sui cambiamenti che determina nel senso di sè e nelle relazioni interpersonali delle vittime; sulla tendenza a ripetere e rivivere gli eventi traumatici attraverso svariate modalità (incubi, flash-back, coazione a rimettere in atto eventi traumatici); sul significato individuale che viene attribuito all’esperienza traumatica; sulla variabilità della risposta al trauma a seconda dello stato fisico e mentale del soggetto, delle sue risorse di personalità (PDM, 2008).

La recente letteratura clinica sulla psicotraumatologia concorda nel ricondurre al lavoro pionieristico di Pierre Janet la comprensione della reazione “normale” ad un trauma. Come afferma McWilliams (2011), se un individuo è sottoposto ad una catastrofe che travalica le sue capacità di elaborazione, specialmente se implica un dolore o un terrore invalicabile, vivrà con molta probabilità una reazione dissociativa. Fra gli analisti relazionali che si sono occupati di dissociazione, Bromberg fornisce un’illuminante definizione di questo meccanismo di funzionamento della mente umana dinanzi alle ferite psicologiche inferte dai traumi: “la dissociazione è una funzione normale della mente che esclude dal campo della coscienza stati di sofferenza intollerabile, legati a realtà interne ed esterne; è un meccanismo di sbarramento che mette al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di stimoli dolorosi, come quelli di origine traumatica. Il suo scopo è quello di proteggere l’Io in tutte le fasi evolutive, per mezzo dell’alterazione dello stato di coscienza ordinario tramite un processo inibitorio attivo di informazioni intollerabili e sopraffacenti, e la costruzione di una realtà parallela più favorevole, in cui trovare rifugio. Il sollievo ottenuto dal ritiro temporaneo in questo rifugio non è patologico e può essere messo al servizio dell’Io, dell’energia personale, della creatività e delle relazioni oggettuali; ma quando tende alla reiterazione eccessiva e alla dipendenza morbosa esso comporta il rischio della coazione all’isolamento e alla distorsione del senso di sè e delle relazioni, fino alla perdita del contatto vitale con la realtà, a favore di attività compulsive e di forme di dipendenza patologica, fino a veri e propri disturbi dissociativi d’interesse psichiatrico” (Bronberg, 2011, p. IX).

Il contributo di Bromberg ha fornito un modello della mente secondo cui il meccanismo dissociativo viene considerato un processo “fisiologico”, una modalità funzionale che il nostro apparato psichico utilizza per segregare – in compartimenti stagni della mente – il dolore delle esperienze traumatiche cui ciascuno di noi è esposto. Una difesa (diversamente concepita dal meccanismo freudiano della rimozione), dunque, dall’onda potenzialmente distruttiva di emozioni terrifiche determinate dagli eventi o dagli sviluppi traumatici. Gli effetti, in termini sintomatici, della dissociazione variano generalmente da una lieve depersonalizzazione alla configurazione di un grave quadro di personalità multipla multiframmentata (McWilliams, 2011).

Una relazione terapeutica che alimenta il senso di fiducia e sicurezza di base, l’autorassicurazione e il senso di fiducia di sè può condurre ad un progressivo ancoraggio alla realtà, ri-accogliendo gradualmente il ricordo delle esperienze traumatiche con il vissuto emotivo sottostante. Bromberg descrive questo processo attraverso una metafora particolarmente affascinante: l’ombra dello tsunami illustra perfettamente la portata emotiva dell’esperienza traumatica che si presentifica nella e attraverso la relazione terapeutica. Per usare le parole dell’autore: “Questo uso della relazione paziente/analista avviene attraverso l’elaborazione congiunta e non lineare di un canale di comunicazione agito (dissociato) in cui la paura del paziente della disregolazione affettiva (l’ombra dello tsunami) viene “fatta ritirare” dalla capacità sempre più ampia di distinguere in maniera sicura la probabilità di uno shock mentale che può essere effettivamente soverchiante da quel tipo di esperienze eccitanti in cui la “tensione” si trova inevitabilmente mischiata al rischio della spontaneità. La paura del paziente della disregolazione, per come viene rivissuta nel presente agito, diventa sempre più contenibile come evento cognitivo, rendendo così in grado la mente/cervello di diminuire il suo affidamento automatico sulla dissociazione come un “rilevatore di fumo” affettivo” (Bromberg, 2011, p. 34).

Bibliografia

American Psychoanalytic Association, Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM), Trad. it., PDM Manuale Diagnostico Psicodimanico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.

Bromberg, P. M. (2011). L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale. Raffaello Cortina, Milano.

Bromberg, P. M. (2007). Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces. Raffaello Cortina, Milano.

Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano.

McWilliams, N. (2011). La diagnosi psicoanalitica. Seconda Edizione riveduta e ampliata. Astrolabio, Roma

van der Kolk, B. A. (1996). The complexity of adaptation to trauma: Self-Regulation, stimulus discrimination and characteriological development. In van der Kolk, B. A., McFarlane, A. C., Weisaeth, L. (a cura di), Traumatic Stress: The Effects of Overwhelming Experience on mind, Body, and Society. Guilford PRess, New York, pp.182-213.

La comunità che cura

“The tenets of the therapeutic community provided the foundation for our first attempts at creating a new community”. “I principi della comunità terapeutica hanno fornito le basi per i nostri primi tentativi di creare una nuova comunità”. Dr. Sandra N. Bloom.

“L’impotenza, l’irrealtà e l’intero scarico della responsabilità sono distorsioni caratteristiche assai diffuse nelle organizzazioni terapeutiche (e anche in altre) […], dato che il potenziale terapeutico sta proprio nella condivisione delle responsabilità, in modo tale che l’individuo non si senta solo nell’affrontare l’inaffrontabile, potendo a questo punto introiettare il sentimento di venire rinforzato e accompagnato attraverso le sue paure più angoscianti. Se la persona sente che qualcuno le è rimasto accanto nella comunità esterna, può giungere ad una maggiore fiducia dentro di sè nella possibilità di rimanere in piedi anche di fronte a un cocente senso di responsabilità.” (Hinshelwood, 1989).

Disparates – Goya, 1864

Le comunità terapeutiche, se organizzate secondo principi democratici, adottano modelli di convivenza improntati al richiamo e al rispetto della responsabilità condivisa, della gestione democratica della vita quotidiana e dei momenti di crisi che, fisiologicamente, ci è richiesto di affrontare. Questa forma di psicoterapia non è intesa come «un nuovo setting, da affiancare ai classici setting individuali, di gruppo, o familiari, ma come uno sfondo politico-culturale ed una cornice teorico-metodologica, tanto dei diversi interventi psicoterapeutici (individuali, di gruppo, familiari) messi in atto nei casi di specifiche manifestazioni psicopatologiche, quanto di tutta una serie di altri interventi clinici e sociali, messi in atto da professionisti, operatori ed (ex)utenti esperti, che sostengono l’empowerment delle persone con gravi disagi psicologici nei loro contesti sociali di appartenenza, ed il loro recovery attraverso la partecipazione attiva a tutti quei processi terapeutici che ne sostengono la cura» (Bruschetta et al., 2015, p. 33).

Basata sul lavoro pionieristico di Tom Main (1983) e sulla successiva rielaborazione di vari autori (ad es. Robert Rapaport, Maxwell Jones, Robert D. Hinshelwood), la concezione di comunità terapeutica democratica è stata sviluppata fino a giungere ad una definizione recente e condivisa: la comunità terapeutica è un «ambiente organizzato che sfrutta il valore terapeutico dei processi gruppali e sociali. Essa promuove una vita di gruppo equa e democratica all’interno di un ambiente mutevole, permissivo ma sicuro. Le questioni interpersonali ed emotive sono discusse apertamente e i membri che vi abitano possono costruire relazioni intime. Lo scambio reciproco aiuta i membri della comunità a confrontarsi sui propri problemi e sviluppa la consapevolezza delle azioni interpersonali» (Haigh & Worral, 2002).

Secondo Kennard (1998) il presupposto fondamentale alla base di qualunque ambiente terapeutico è la condivisione del potere fra i membri della comunità. La comunità terapeutica non viene infatti concepita come un dispositivo statico, bensì come un sistema che si focalizza sulle proprie modalità di comunicazione – mai semplici o automatiche – e sempre suscettibile di soccombere agli automatismi amministrativi. Ancora, l’ambiente o comunità terapeutica rappresenta un tentativo di applicare i principi della psichiatria sociale e della teoria dei sistemi al trattamento istituzionale di vari tipi di devianza. Gli studi sull’applicazione dei modelli di comunità democratica all’organizzazione degli ospedali psichiatrici equiparavano infatti i nosocomi a microcosmi della più ampia società, rappresentando di fatto laboratori sperimentali per il cambiamento sociale (Tucker & Maxmen, 1973).

Una delle più sorprendenti caratteristiche di funzionamento degli ambienti terapeutici sta nel fatto che è la stessa comunità (quindi gli individui che la compongono) ad esercitare la maggiore influenza terapeutica su se stessa (Rapoport, 1960). Tutte le comunità terapeutiche si basano su precisi assunti: i pazienti vengono sollecitati ad assumersi la responsabilità di gran parte del proprio trattamento; il funzionamento organizzativo è più democratico che autoritario; i pazienti vengono messi nelle condizioni di aiutarsi a vicenda; il trattamento terapeutico deve essere prevalentemente volontario, se e quando possibile; i metodi psicologici di trattamento sono preferibili ai metodi di controllo fisico (Almond, 1974).

Poiché, inoltre, la permanenza nelle comunità terapeutiche è generalmente lunga (va da alcuni mesi a uno o più anni), essa rappresenta, secondo Jones (1953) un’opportunità di apprendimento sociale derivato dall’esperienza di convivenza all’interno di una rete sociale in cui i conflitti e le crisi – che si verificano in maniera del tutto fisiologica e naturale – vengono analizzati in situazioni di gruppo, utilizzando le competenze psicodinamiche a disposizione. Chiaramente, continua l’autore, una tale forma di apprendimento è complicata e dolorosa perché gli schemi di comportamento precedentemente acquisiti devono essere disappresi nella prospettiva di acquisire nuovi e più adeguati schemi di comportamento. Questa visione della comunità intesa come organizzazione sociale suscettibile di entrare in crisi implica una living-learning situation (una situazione esperienziale di apprendimento sul campo) , che fornisce la spinta verso il cambiamento e l’opportunità di imparare a cambiare (fonte: http://sanctuaryweb.com/TheSanctuaryModel/ORIGINSOFTHESANCTUARYMODEL/SocialPsychiatry/DemocraticTherapeuticCommunity.aspx).

Bibliografia

Almond, R., The Healing Community: Dynamics of the Therapeutic Milieu. 1974, New York: Jason Aronson.

Bruschetta, S., Bellia, V., Barone, R. (2015). Manifesto per una psicoterapia di comunità a sostegno della partecipazione sociale: la psicoterapia individuale e quella di gruppo rispondono ancora ai bisogni di cura della società? Plexus, Rivista del Laboratorio di Gruppoanalisi, n°14-15.

Haigh, R., Worrall, A. (2002). The Principles and Therapeutic Rationale of Therapeutic Communities. https://www.rcpsych.ac.uk/docs/default-source/improving-are/ccqi/quality-networks/ therapeutic-communities-c-of-c/cofc-process-document-2019-2020.pdf?fvrsn=77daf685_4.

Hinshelwood, R. D. (1989). Cosa accade nei gruppi. L’individuo nella comunità. Raffaello Cortina Editori, Milano.

Jones, M., The Therapeutic Community: A New Treatment Method in Psychiatry. 1953, New York: Basic Books.

Kennard, D., Introduction to Therapeutic Communities. 1998, London: Jessica Kingsley.

Tucker, G. and J. Maxmen, The practice of hospital psychiatry: A formulation. American Journal of Psychiatry, 1973, p. 887-891.

Rapoport, R.N., Community as Doctor: New Perspectives on a Therapeutic Community. 1960, London: Tavistock Publications.

La costruzione di sè attraverso la crisi

La sofferenza mentale si manifesta spesso attraverso una crisi che può essere “letta” come una tentativo di trasformazione e costruzione di sè

– Secondo te in questo bozzolo che cosa c’è? – Non lo so, è una farfalla? – No. Qualcosa di più bello. È un bozzolo di falena. Un’ironia… tutti guardano le farfalle ma sono le falene a filare la seta. Sono più forti, più veloci. – È bellissimo, ma… – Vedi questo forellino? Questa falena presto emergerà. Ora è dentro che lotta, che si scava la via attraverso la corteccia del bozzolo. Adesso la potrei aiutare, con il coltello. Potrei allargare il foro e la falena sarebbe libera, ma troppo debole per poter sopravvivere. In natura si lotta per diventare forti.
Tratto dalla serie TV «Lost» di J.J. Abrams, D. Lindelof e J. Lieber, 2004-2010.


Fiori, insetti e rettili – Otto Marseus van Schrieck, 1673

Il termine crisi deriva dal verbo greco krino che significa scelta/decisione[1]. Canova (2013) ricorda che nella tragedia la crisi faceva riferimento ad un momento di svolta lungo la trama, segnandone il cambiamento; ancora, nella medicina ippocratica, la crisi fa riferimento ad un cambiamento, in positivo (guarigione) o in negativo (decesso), che avviene nel corso di un processo patologico.  Parad e Parad definiscono la crisi come uno “stravolgimento di una condizione stazionaria, un momento di svolta che conduce ad un miglioramento o ad un peggioramento, una rottura (o breakdown) nel funzionamento abituale di una persona o di una famiglia” (Parad & Parad, 1990, pp. 3-4). Racamier e Taccani, infine, individuano nella crisi un “processo specifico e globale di cambiamento consecutivo ad una rottura di un equilibrio anteriore e con un risultato più o meno aleatorio” (Racamier & Taccani, 2010, p. 13). In generale, si tratta dunque di un evento processuale che implica un inizio, uno svolgimento e un termine, e che segna un passaggio da un assetto organizzativo ad un altro. Da un punto di vista psicoanalitico, evidentemente, il passaggio è segnato da una pre-esistente organizzazione difensiva a nuovi meccanismi. In tutti i casi, la crisi può essere definita come il momento culminante di un processo che segnala e dunque attiva un tentativo di comunicazione dell’emergenza di un cambiamento nel funzionamento di un sistema (interno ed esterno al soggetto).

Nell’ambito della psicologia moderna, uno dei primi autori che ha connesso il concetto di crisi al processo di sviluppo del sè è Erik Erikson (2008), che individua nell’espressione “Identità dell’Ego” un fenomeno psico-sociale radicato nei processi intrapsichici dell’individuo e che è influenzato, al contempo, dal contesto socio-culturale di riferimento. In “Gioventù e crisi d’identità” (2008, p.109), l’autore ricorre al “principio epigenetico” per spiegare lo sviluppo dell’identità individuale. Secondo questo principio, qualunque organismo cresce a partire da un piano di base le cui componenti si sviluppano seguendo un percorso evolutivo – segnato da tappe specifiche – che ha come fine ultimo l’integrazione delle parti in un insieme funzionante. E’ così che ogni momento di passaggio da uno stadio all’altro dello sviluppo coinvolge, direttamente o indirettamente, tutti gli attori del contesto sociale. Poiché ciascuna tappa di sviluppo, inoltre, rappresenta un radicale cambiamento di prospettiva, essa implica l’emergenza di un momento di “crisi”, inteso non nella sua accezione estrema di “catastrofe”, bensì come periodo di svolta, di cambiamento, di trasformazione. Normalmente, qualunque passaggio da una condizione conosciuta ad una ancora ignota predispone l’individuo ad una condizione di vulnerabilità. Tale vulnerabilità sarà accompagnata però, come afferma l’autore, da una potenzialità “istintiva” che fornisce alla persona l’energia per esplorare le sue stesse capacità e che sarà rafforzata, in un ambiente sufficientemente sano, dalla sensibilità delle risposte ricevute.

E’ possibile, in psicoterapia, accogliere un momento di crisi inteso come momento o fase di vita in cui emergono delle esigenze di cambiamento che possono essere espresse anche attraverso disturbi o sintomi. La sofferenza del sistema mentale và dunque accolta, decodificata e ri-significata attraverso un processo di trasformazione di sè e delle relazioni con gli altri. Nella stanza di terapia, il professionista della salute mentale lavorerà insieme al paziente per “leggere” la manifestazione del suo dolore, anche attraverso un’analisi delle dinamiche relazionali con il sistema familiare, lavorativo e sociale. Qualunque forma di sofferenza mentale, infatti, può essere ricondotta alla storia personale e relazionale, caratterizzata evidentemente da difficoltà nel processo di individuazione e soggettivazione, e che si traduce in dinamiche interpersonali disfunzionali.


Bibliografia

[1] http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=crisi

Canova, R. (2013). L’esordio psicotico come crisi di un sistema, in L’esordio psicotico. Approcci clinici a confronto, AA.VV. (a cura di) Carnevali, R., Tagliaferri, N., ArpaNet editore, Milano.

Erikson, E. (2008). Identity Youth and Crisis, New York, W.W. Norton & Company, 1968. Tr.it. Gioventù e Crisi d’identità, Roma, Armando Editore, p. 109.

Parad, H.J., Parad, L.G. Crisis Intervention, Book 2: The Practitioner’s Sourcebook for Brief Therapy. Milwaukee, WI, Family Service America, 1990, pp. 3-4. “[…] upset in a steady state, a turning point leading to better or worse, a disruption or breakdown in a person’s or family’s normal or usual pattern of functioning” (traduzione mia).

Racamier, P.-C. ,Taccani S. (2010). La crisi necessaria. Il lavoro incerto. Franco Angeli, Milano, p. 13.